Forse il luogo più soffertamente amato da Elettra Deiana è stato il Forum delle donne.

Voluto e pensato da lei insieme ad altre di Rifondazione Comunista, il Forum è stato un approdo inedito e unico per molte attiviste nella storia della complessa relazione tra i partiti della sinistra e il movimento femminista italiano.

Come annota Linda Santilli nella sua ricostruzione delle tappe del Forum, che nasce nel 1994 dopo l’esperienza di Luoghi di donne dentro Rifondazione “attraverso la pratica politica fondata sulla relazione fra donne, scelta per dare valore e forza alla politica di genere, il Forum avvia un percorso di sperimentazione dentro e fuori il partito, scegliendo di essere ‘luogo di frontiera’ orizzontale e circolare che si interroga e interroga il mondo, le contraddizioni del presente, i mutamenti in atto, i processi di globalizzazione neoliberista, attingendo alla risorsa del patrimonio d’elaborazione critica e di pratica delle donne e al patrimonio delle punte più avanzate della tradizione comunista novecentesca”.

Elettra mi invitò al Forum in virtù dell’apertura anche alle non iscritte ed io, da esterna guardinga e senza troppa fiducia nei partiti quale sono sempre stata, partecipai per qualche anno a quell’esperienza, incontrando donne di grande spessore e profondità politica, quali Imma Barbarossa e Erminia Emprin Gilardini, quest’ultima animatrice di molti seminari di Altradimora.

Più volte collaboratrice della rivista Marea, con scritti che spesso riflettevano sul suo doppio legame con il femminismo e con la politica mista dentro ad un partito della sinistra e sul ruolo che, per anni ha giocato il Forum dentro e fuori Rifondazione, di Elettra Deiana ho conosciuto il lato aspro, risoluto, poco incline alla mediazione insieme a quello levigato, riflessivo e a tratti intimo che più volte ha rivelato nella sua scrittura quando le abbiamo proposto articoli di riflessione su temi non legati strettamente all’attualità politica.

Non ebbe esitazione a scegliere la figura di Sibilla Aleramo quando le chiesi di individuare una autrice italiana che sentisse vicina da raccontare per il cd audio Viaggiatrici della parola . Cominciò proprio da quel nome così particolare, Sibilla: un nome raro e indimenticabile come il suo, Elettra.

Mi fa piacere offrire di lei, più conosciuta per la scrittura saggistica e di analisi politica, quel lato meno noto, di riflessione appunto più confidenziale, che espresse con questo articolo del 2005 nel numero di Marea dedicato alla parola pause, un termine in apparenza così lontano dal pieno della sua vita in continuo, e a tratti vorticoso, impegno per trasformare il mondo.

Intermittenze del cuore

di Elettra Deiana (Marea n. 3 2005)

Sono solita inserire tra i libri, a casa mia, fogli di giornale ripiegati con le notizie dei grandi fatti: quelli di cui ho il desiderio di mantenere viva la memoria. Un desiderio che è insieme politico ed esistenziale.

Li metto in modo che siano ben visibili. Ordinati, ma visibili. Talvolta conservo l’intero giornale, che sta lì come un libro, in fila con gli altri. In uno scaffale, per esempio, è ben visibile il Manifesto del 27 dicembre 1991. In copertina campeggia una grande bandiera con la stella, la falce e il martello e, accanto a un editoriale firmato da Rossana Rossanda, un titolo di apertura annuncia che quella bandiera non sventola più. Il giorno è il Natale 1991: dopo settantaquattro anni la bandiera rossa viene ammainata sul Cremlino. Sembrano passati secoli. Invece è poco più che ieri: la nostra vita. La mia vita. Anche se, per sensibilità di pelle, per formazione politica avvenuta tra le file di una sinistra eretica e lunga riflessione teorica, non sono mai stata tenera con le vicende storiche dell’Unione Sovietica. Su un altro scaffale c’è una piccola rassegna stampa con le prime notizie della guerra nei territori della ex Jugoslavia. Un’ingiallita prima pagina dell’Unità annuncia l’inizio dei bombardamenti americani per la guerra del Golfo. Mi chiedo ancora come sia stato possibile, qui in Europa, abituarsi così facilmente a convivere di nuovo con la guerra.

Su altri scaffali ci sono notizie riguardanti Nairobi, il Cairo, Pechino: un percorso di donne che ha segnato così profondamente la nostra epoca. E poi, ancora, altro. Quei ritagli per lo più non li noto, fanno parte del paesaggio domestico e si perdono nella quantità infinita di libri e di carte nelle mie stanze, ma quando cerco un libro, quando spolvero o metto in ordine, me ne capita sempre qualcuno tra le mani e allora mi chiedo perché l’abbia messo lì. Sono spinta a darci un’occhiata, a rileggere la notizia. Così nel mio tempo quotidiano si crea una pausa, un andare indietro scavando nella memoria. E riafferro quella vicenda, cerco di ridare una dimensione e un senso temporale alle cose. Invece, se non ci penso, so che quel senso mi sfugge continuamente, talché i fatti di ieri appartengono a un passato remoto, ormai perso, ad altre vite, ad altri mondi.

Questo secolo che muore è durato proprio lo spazio di un mattino: secolo breve, tumultuoso, convulso, che troppo rapidamente ha cambiato molte cose lasciandone immutate troppe altre.

Capire che cosa ci sia successo richiede il tempo grande della riflessione, la pausa sapiente del pensiero. Soprattutto, ne sono sempre più convinta, la capacità delle donne di uno sguardo ravvicinato alla realtà.

Quando viaggio mi coglie spesso la magia della memoria. Facilmente mi distraggo dalla lettura, da tutti quei testi, articoli, appunti che diligentemente mi porto appresso, per utilizzare al meglio, penso, le ore passate in quel non-luogo che sono, oggi, i treni. Vado dietro ai ricordi e di quando in quando guardo fuori dal finestrino, forse per cogliere di sfuggita qualche squarcio che conservi il fascino di un incontro di senso e di armonia tra la civiltà umana e l’ambiente naturale. Talvolta mi capita di cogliere paesaggi ancora incantevoli, nonostante la dilagante, insensata devastazione causata dalla cementificazione. Mi piace vedere passare in corsa i borghi antichi arroccati sulle colline, i piccoli camposanti di paese e certi arditi viadotti sospesi nel vuoto. La storia delle tecniche di costruzione mi ha sempre appassionata. Ne discuto spesso con un mio amatissimo nipotino, che condivide la mia passione e, quando capita, mi vuole rendere partecipe delle sue dottissime ricerche sui marchingegni ingegneristici dell’antichità.

Quando ero bambina e ragazzina e anche giovane donna, il viaggio costituiva per me un’emozione grandissima. Amavo straordinariamente viaggiare e, per quei tempi, credevo di aver viaggiato molto. Ricordo quella sensazione di attesa che mi prendeva: la scoperta delle cose, dei luoghi. Provavo come l’incantesimo di un nuovo inizio e mi sembrava di vivere in una sorta di sospensione del tempo, in una zona franca rispetto agli obblighi quotidiani. Oggi gli spostamenti sono soprattutto per impegni politici e con dentro proprio niente di quella magica attesa della giovinezza. Ma se capito in un posto che non conosco mi scatta dentro la curiosità antica di sapere, curiosare tra strade e piazze alla ricerca delle tracce perdute del vivere umano. E chiedo, indago, cerco di fissare nella memoria qualcosa di quel luogo, di quel pezzetto di storia sociale che prima non conoscevo.

Ho ancora vivissimo il ricordo di un grande spazio mediterraneo, dove ho trascorso alcuni anni della mia infanzia: Marina di Ginosa, vicino a Taranto.

La mia famiglia era là perché mio padre lavorava alla bonifica delle paludi di Metaponto. Ricordo la spiaggia con le dune e la macchia selvatica profumata. Le tracce degli uccelli, sulla sabbia, disegnavano percorsi misteriosi, che io seguivo incantata quando, la mattina, con mia madre, si scendeva al mare. La ferrovia attraversava le dune e, di là dalla strada ferrata, un agglomerato di poche case era tutto il paese. Una straordinaria pineta celava orizzonti incantati: l’abitava il Principe Chiomadoro, l’eroe di un fumetto che allora amavo molto.

La notte era piena di stelle e io passavo le ore a guardare dalla finestra della mia camera le lampare lontane sul mare che si mescolavano alle luci del cielo.

Non ho più avuto occasione di tornarci da allora, nonostante che in Puglia ci capiti spesso. Da poco sono stata anche a Taranto e con una amica si parlava dei paesi vicino. Ho chiesto quanto ci volesse ad arrivare a Marina di Ginosa e la mia ospite mi ha guardato un po’ stupita. “Perché vuoi andare in quel posto orribile” mi ha chiesto “tutto cemento e palazzoni?”

So bene che è tutto cemento e palazzoni, come potrebbe non essere così? Ma dentro di me ho provato come una piccola stretta. Forse è meglio lasciare intatto quel luogo della memoria. Le dune e la macchia che non ci sono più.