di Mirella Armiero dalla rivista Gli asini

Ai Wei Wei ha ricoperto con gommoni nuovi di zecca, simmetricamente disposti, l’intera facciata di Palazzo Strozzi, ottenendo un effetto di grande impatto sui visitatori della sua discussa e acclamata personale fiorentina dell’inverno appena passato. I gommoni arancioni e vuoti alludono alle disperate traversate per mare dall’Africa all’Europa: il tema dei migranti è organizzato dall’artista cinese in una forma che punta sulla serialità e su di una poetica esplicita, quasi didascalica. Proprio la ripetizione “decorativa” del segno, però, smorza in qualche modo la denuncia sociale e la bellezza dell’installazione finisce per indebolirne la drammaticità.

Dei migranti l’arte ha preso a occuparsi da qualche anno, ma il numero di opere nate intorno a questa tragedia contemporanea è ipertroficamente cresciuto negli ultimi tempi. I percorsi personali degli artisti sono naturalmente vari e differenti e non si può ancora dare una definitiva lettura del fenomeno. Eppure mi sembra che tra arte e giornalismo ci sia  una singolare permeabilità e che l’arte abbia rinunciato per molti versi alla propria capacità di mostrare una percezione più acuta e preveggente rispetto alla cronaca e naturalmente al senso comune. La tendenza estetizzante che spesso accompagna i reportage fotografici dei giornali contagia l’arte stessa e rischia nell’uno e nell’altro caso di anestetizzare lo sguardo di chi assiste al fatto e alla sua rappresentazione.

La fotografia di Sergey Ponomarev, vincitrice del Pulitzer 2016, è perfetta, anche troppo, per intensità, composizione, soggetto.  Rimanda immediatamente alla “Zattera della Medusa” di Théodore Géricault ed è la dimostrazione dell’affermarsi prepotente di una “estetica del migrante” che accomuna cronaca e arte e fa da ponte tra i due linguaggi, all’interno di una tendenza al ribasso, ovvero all’assorbimento della conoscenza nelle istanze immediate della comunicazione. Così come nel caso dell’ormai arcinota immagine del piccolo profugo annegato sulla spiaggia di Bodrum, in Turchia. Anche quella di grande effetto, commovente ed esteticamente forte in tutti i suoi elementi, dalla postura indifesa del bimbo al rosso vivo della maglietta che fa da straziante contrasto all’immobilità della morte. I commenti e il momentaneo sdegno sui social, insieme alle valanghe di emoticon con faccina triste e lacrime, non hanno spostato di un millimetro le politiche occidentali  sul fenomeno delle migrazioni ma ci hanno frettolosamente dispensato da ogni altro impegno nei confronti di questo problema sempre più urgente.

C’è da chiedersi se sia meglio non pubblicare queste immagini che addomesticano le coscienze e lasciare invece spazio ad altri scatti più duri, crudi. Senza cadere necessariamente nell’altro eccesso, il sensazionalismo. L’artista tedesco Thomas Hirschhorn (di recente in mostra alla galleria Artiaco di Napoli) scarica dal web immagini di corpi martoriati, maciullati, provenienti da un altrove non identificato ma senz’altro da qualche sud del mondo, per contrapporli alle silhouette di modelle che sfilano. Poi sfigura queste ultime con il sistema dei pixel ovvero sgranando le fotografie fino a renderle irriconoscibili e astratte, ma mantenendo intatta la loro grazia effimera. Al di là del facile contrasto tra società del benessere e miseria assoluta, dominata dalla violenza, il lavoro di Hirschhorn non blandisce né rassicura e non offre allo sguardo un insieme armonioso. In qualche modo spiazza e sconcerta. Nei testi che accompagnano la mostra, l’artista stesso spiega il suo intento di combattere la “tendenza all’iconismo”. Ovvero quella che definisce come “l’abitudine di “selezionare”, “scegliere” o “trovare” l’immagine che rappresenta, “la grande immagine”, quella che “esprime più delle altre”, che “conta di più”. In altre parole, la tendenza dell’iconismo è la tendenza a sottolineare un qualcosa; è una vecchia e tradizionale procedura d’impostazione che favorisce in maniera autoritaria una gerarchia.  “Non è una dichiarazione d’importanza verso qualcosa o qualcuno ma una dichiarazione  d’importanza verso gli altri. Il fine è quello di stabilire un comune senso di valori, di peso e di misure. (…) Nel campo delle immagini di guerra e di conflitto questo porta a scegliere cosa è accettabile per gli altri. Viene considerata ammissibile l’immagine che rappresenta un’altra immagine, diventando così simbolo di tutte le immagini per qualcosa d’altro o addirittura per una non immagine. L’immagine o l’icona certamente dovrà essere corretta, buona, giusta, autorizzata e scelta in maniera consensuale. E questo è ciò che la rende manipolata”.

La difficoltà, insomma, è evitare di compiacere l’occhio del lettore di giornali e del frequentatore di vernissage, troppo spesso in cerca di esperienze estetiche a buon mercato. Alla Triennale di Milano Massimiliano Gioni ha curato la collettiva “La terra inquieta”, titolo mutuato da una raccolta di poesie dello scrittore caraibico Edouard Glissant. Nonostante la buona volontà e l’inclusione di punti di vista non occidentali, anche qui le storie e i simboli di guerre e migrazioni sono rappresentate in modo talvolta ambiguo. Lo coglie bene Gabriele Guercio su Alias di domenica 21 maggio: “L’allestimento”, osserva, “di per sé genera significati e stati d’animo: dalle luci alla distribuzione delle opere lungo le pareti, nelle stanze o in sale di proiezione esso concorre a ribadire il contenuto manifesto (speranze, ansia, etc.). Ma il tutto talvolta si sfalda e, come in un lapsus, lascia trapelare un impulso cosmetico”. E ancora: “Inquieta, insomma, che una mostra i cui intenti dichiarati sono altri possa dispensare comfort e alimentare la mentalità che vorrebbe denunciare. Purtroppo non è detto che l’arte unisca al di là delle fratture del mondo. La condivisione è per lo più precaria, causata dalle mura protettive di musei e gallerie nonché dalla indole disciplinata degli habitué di quei luoghi”. Del resto il filosofo dell’arte Arthur Danto, teorico della fine dell’arte stessa nei nostri giorni, ha spiegato che con i cambiamenti in corso nel settore l’alternativa possibile è la “creazione di un’arte non museale”, che “trasformi il pubblico stesso in artista”. L’opposto, insomma, di quello che accade quando l’esperienza della migrazione viene imbellettata ed esposta nel museo.

Una strada possibile sarebbe appunto quella di assumere una volta e per tutte un punto di osservazione empatico, interno, contiguo a quello dell’oggetto osservato. Costringere lo spettatore ad adottare un altro sguardo, privo di paternalismi e patetismo. Quello che fa, ad esempio, l’albanese Adrian Paci, il cui lavoro è per gran parte centrato sullo sradicamento e sull’allontanamento dai propri luoghi. Nel video “Centro di permanenza temporanea” del 2007, ambientato nell’aeroporto di San José in California, alcuni immigrati sono ripresi in attesa di essere rimpatriati, appollaiati sulla scala di un aereo che via via si affolla sempre di più. L’aereo però tarda ad arrivare e i personaggi rimangono intrappolati in una sorta di limbo, in uno stato di sospensione, come tantissimi migranti nel mondo, sperimentando la “doppia assenza” teorizzata dal sociologo Abdelmalek Sayad, ovvero la condizione di essere sempre fuori luogo. Accade così che almeno per un momento anche lo  spettatore si senta in bilico su quella scaletta, tra la propria vita passata e un futuro incerto e minaccioso, proteso verso quel mondo che resta inesorabilmente ostile.