Paola Cavallari, dell’Osservatorio interreligioso sulle violenze contro le donne (OIDV), parla del libro di Pina Mandolfo Lo scandalo della felicità. Storia della principessa Valdina di Palermo (Vanda Edizioni, 2023).

«Quanti uomini (e donne) erano caduti su quella terra piangendo lacrime di sangue, fuggendo il
nemico, lasciando città in fiamme, stringendosi al petto i figli… Eppure nessuno aveva mai pensato
a tutti quei morti con partecipazione affettuosa: per i loro discendenti non contavano più di polli
sgozzati». Si tratta di un brano da Suite francese, di Irène Némirovsky: nel fluire del racconto, in
uno stile asciutto ed incisivo, la scrittrice inserisce, come contrappunto, questo illuminante
frammento, volto ai corpi delle persone morte in guerra e alla trascuratezza che li inghiotte.
Nemmeno le tante vite di donne sfiancate o sterminate – nel corso dei secoli – dalla prepotenza e
avidità maschile sono custodite con partecipazione affettuosa.
Con prosa raffinata ed esteticamente attenta, Pina Mandolfo, nel suo libro Lo scandalo della
felicità
, si fa carico di disseppellire la vicenda di una monacazione forzata, realmente accaduta a
Palermo nel sec. XVII. Appartiene dunque a una narrativa militante, nell’ottica della restituzione
della grandezza di una donna «assoggettata ma non soggetta».
La nota che l’autrice inserisce a fine libro e in quarta di copertina è estremamente esplicativa:
racchiude l’asse su cui si incardina questo mio commento che, per ragioni di spazio, non entrerà nel
merito di altri aspetti e contenuti pur essenziali dell’opera.
Scrive Mandolfo: «A volte una donna, dimenticata e taciuta, si “appella” a un’altra donna per
prendere corpo e uscire dall’oblio… Siamo una schiera che porta alla luce un incommensurabile
patrimonio di vite celate per costruire finalmente una genealogia femminile: solo allora… altri e
altre conosceranno “sconosciute” nascoste negli scarti della storia».
Con tale metanarrazione o chiave di lettura, siamo orientate/i a un buon uso del libro. Non è opera
storico-letteraria in cui affiorano gli orrori di una società crudele o racconto intriso dei
sentimentalismi struggenti di una monacazione forzata. Si tratta di molto di più. Sono
imprescindibili le parole dell’autrice appena citate: una sorta di cifra programmatica dell’intento che
la anima, molto più alto, audace, ambizioso, politico. Un obiettivo di rigenerazione nel nome di una
“politica sessuale” vi è racchiuso. Mandolfo esprime qui, come in tutto il libro, la vocazione al
prendersi cura di vite femminili sepolte; e con esse fare pietre d’inciampo, creare memoria, adottare
l’atteggiamento di una talpa che scavi nelle viscere della Storia, per decostruirla e riscriverla senza
sconti: il faut costruire genealogia.
«L’assenza di una storia per le donne è più grave che l’assenza di una storia delle donne», scrive
Geneviève Fraisse. A tale necessità di una storia per le donne, soccorrerebbe la genealogia, che
ricostruisce il registro dove si opera la fabbricazione dell’egemonia politica basata sul valore
differenziale dei sessi. Esso è precisamente «ciò a partire da cui l’umanità si pensa», aggiunge
Fraisse.
L’inclinazione prospettica con cui Mandolfo sviluppa il racconto della principessa Valdina è del
tutto inscritto in tale “ri-pensare l’umanità”, nella scia dell’epigrafe con le parole di Adrienne Rich:
«Il nostro compito… è cercare in ogni descrizione che ci è stata offerta del mondo, i silenzi, le
assenze… il taciuto… perché è lì che troveremo la vera cultura delle donne… vale a dire iniziare ad
assumersi il peso delle nostre esistenze».
Ho letto questo libro con singolare trasporto. Mi imbattevo in un romanzo storico dove la
narrazione era filtrata sapientemente da riflessioni, commenti, voli della mente nutriti da
consapevolezza del furto subito dal genere femminile, coscienza sofferta ma anche redenta.

«Sentivo la mia [vita] intrecciarsi alla sua, in quel prodigioso corpo a corpo che si stabilisce tra chi
scrive e le sue creature. Il suo tempo è diventato il mio e quello di tante donne che, ieri come oggi,
lottano per mettersi al mondo libere», osserva Mandolfo. Dopo aver subìto l’avvelenamento tramite
l’uso distorto delle Scritture per indurre all’obbedienza, dopo aver attraversato la agonia della
reclusione, del confinamento all’isolamento, della umiliazione, della colpevolizzazione,
dell’ostracismo di chi è demonizzata, dell’abisso intimo della disistima, inflitto da un susseguirsi
infinito di plagi, manipolazioni, raggiri e calunnie, Anna Valdina accede a quella libertà per cui ha
combattuto con un coraggio senza pari. «Tante donne, ieri come oggi, lottano per mettersi al mondo
libere», commenta l’autrice, consapevolmente fiduciosa in una trasformazione in atto tra i sessi.
Recuperare le tracce del passato e insieme lasciare le nostre alle generazioni future è un invito
sotteso al testo: credo che tutte noi dovremmo farlo proprio, assumere tale responsabilità e non
delegare alle esperte (un vizio assai diffuso dagli anni Novanta con la introduzione dei gender
studies, con le notevoli ripercussioni: quelle di potenziare un femminismo accademico che deforma
e spesso azzera le istanze/vitalità di un femminismo/movimento) e concorrere con le proprie
capacità e il proprio talento.
Se la costrizione disumana sulla vita di una donna – di cui la Chiesa cattolica era complice e
coprotagonista, esercitata allora con tacito consenso da parte della società secolare – può
considerarsi d’altri tempi, oggi la tracotanza degli abusi sulle religiose è meno appariscente, ma non
cessa di protendere i suoi tentacoli: è occultata e più pervasiva. Le strategie sono meno visibili ma
altrettanto annichilenti di quelle del passato, i muri delle prigioni delle monache nel ‘600 erano di
pietra, oggi sono immateriali, ma altrettanto segreganti.
L’onore della istituzione o della congregazione o della comunità di vita consacrata viene al primo
posto; ricorrere a ricatti, al sacrificio di una vittima e all’omertà non crea scrupoli.
Ma molte consacrate – i cui nomi sono a volte coperti per prudenza, ma altre volte si palesano con
fierezza – stanno strappando il velo di silenzio che per anni ha coperto le violenze subite.
Tra le prime denunce pubbliche sui crimini, quelle di suor Marie Mc Donald (1998) e di suor Maria
O’ Donohue (1995), suor Rita Mboshu Kongo (2015). Non posso qui non ricordare la fermezza e
l’audacia di altre suore o ex suore, tra cui Mary Lembo, Doris Wagner Reisinger. Tra le ultime,
quella di suor Anna Seguì Martì, carmelitana spagnola (2022): sono solo alcune delle figure
luminose che osano dire pubblicamente e scrivere di manipolazioni e costrizioni intollerabili. A esse
vanno aggiunte le voci anonime che sono state registrate in opere decisive nel panorama italiano,
come quella del libro di Anna Deodato, Vorrei risorgere dalle mie ferite. All’elenco si uniscono le
consulenti teologiche che con passione si stanno dedicando a una lenta e difficile indagine,
accostando – in un’ottica di “politica sessuale” – questo universo in un corpo a corpo: sono ad
esempio Ute Leimgruber, Barbara Haslbeck, Constance Lalo.
La rivista Adista con Ludovica Eugenio va elogiata per l’opera pioneristica e indefessa nel dare
conto di tale arcipelago. Così come la giornalista Federica Tourn e il giornalista Federico Tulli. Ma
siamo alla punta di un iceberg.
I media italiani, tranne rarissimi casi, derubricano il tema (compiacenza con il potere clericale?).
Lo Stato non sente. Come non pensare che siano complici della tolleranza di un tale sistema
totalitario?
E i perpetratori, di che sesso sono? Quel clero di cui sono esponenti o da cui sono stati legittimati
come guide non è forse incarnato da maschi? Ci sono anche donne, certamente, ma il sistema
autoritario, androcentrico, clericale e sessista di cui si fanno interpreti e garanti ha un nome:
kyriarcato, governo/potere del capo/signore/padrone.
Quelle donne hanno interiorizzato la cultura della forza, su cui tanto si è affaticata Simone Weil. La
hanno assunta e impersonata per una miserabile briciola di potere. Il clero è il mandante che, da
millenni e tuttora, si è eretto a emblema della sacralizzazione dell’egemonia politica basata sul valore differenziale dei sessi, matrice di ogni oppressione.
Infine. L’indagine per scovare i responsabili e chi li copre, il sostegno alle donne afflitte da tali
malvagità (che necessitano di un ascolto che prenda sul serio ciò che sentono e le aiuti a
trasformarlo in parole), lo smascheramento e la denuncia sono azioni imprescindibili.
Lo stanno facendo donne assertive e determinate, come la rete Re.in.surrezione, creata da
componenti di associazioni (Donne per la Chiesa, Osservatorio interreligioso sulla violenza contro
le donne) che si impegnano su questo terreno e altre persone sfruttate e abusate, uscite da
movimenti ecclesiali la cui tossicità è sistemica; insieme stanno conducendo una battaglia in nome
della giustizia e della libertà femminile: «La verità vi renderà libere e liberi», (suor) Anna Valdina
docet.

* La recensione è apparsa su “Adista” – Segni Nuovi – del 3 giugno 2023.


Al libro di Pina Mandolfo è stato dedicato anche un incontro organizzato dal Laboratorio Re-in-surrezione, al quale ha partecipato l’autrice, incontro del quale si può leggere la sintesi, a cura di Paola Cavallari, su RIFORMA.IT, QUOTIDIANO ON-LINE DELLE CHIESE EVANGELICHE BATTISTE, METODISTE E VALDESI IN ITALIA.