Perché i nostri manuali di storia non restituiscono il vissuto femminile se non in forma aggiuntiva e sporadica? Quando e come si è costruito il canone di ciò che è rilevante, e quindi deve essere insegnato, e ciò che invece non lo sarebbe? Quali modifiche si impongono al nostro modo di pensare questi strumenti? Come produrre cambiamento, nonostante i limiti, a partire dalla nostra concreta attività d’insegnamento? E’ questo il fil rouge dell’intervento di Franca Bellucci al seminario del 16 ottobre scorso a Lucca Il genere a scuola.

1. Interpretare una necessità

La storia con sguardo di genere è già esperienza nell’attività corrente delle scuole a tutti i livelli, dalla materna alla superiore, e in tutti gli indirizzi, dai licei agli istituti tecnici, come hanno testimoniato alcune scuole della Toscana (Lucca, Carrara, Massa, Forte dei marmi, Firenze, Empoli) nel recente seminario (16 ottobre scorso) a Lucca organizzato dalla Sis, Società italiana delle storiche col locale Istituto della Resistenza. In questa occasione ha avuto luogo una riflessione specifica sui manuali di storia, sul peso e sull’uso che sono parte della tradizione scolastica italiana, in vista di un possibile manuale ideale della Sis.
La produzione dei manuali scolastici, come quella dei testi-base per i corsi a tutti i livelli compresa l’università, in Italia è libera, lungo le tracce ministeriali che disegnano ordinamenti e programmi. Il settore si caratterizza per una produzione abbondante. I testi si moltiplicano, con una specie di febbre, dietro la quale però persistono testi di lunghissima durata, con aggiornamenti superficiali. La Sis non è soddisfatta del panorama: nell’insieme l’impostazione della manualistica scolastica permane distratta e stereotipata sul tema della presenza delle donne nella società, nonché della loro elaborazione culturale e materiale, anche se il giudizio va articolato, poiché è vario l’accento dei manuali: alcuni hanno pur messo alla base le esigenze avanzate. Ma la critica prevale e spinge la Sis ad accentuare l’attenzione ed a valutare se assumere direttamente l’iniziativa, anche attraverso il gruppo mirato alla Didattica, di cui si fa interprete l’attuale referente, Liviana Gazzetta.
Personalmente ho una sensibilità orientata sulla scuola senza essere una specialista. Ex-insegnante, l’ultimo anno di professione è stato il 2007-08: e non sulla storia, che ho coltivato con costanza solo dal 2004, bensì sulla cattedra di latino e greco. Mi colpisce molto che ancora dentro la scuola, quasi che ripetesse una disciplina da caserma, gli studenti coltivino gli stereotipi di genere: che vi siano frequenti pratiche di vessazione dei grandi verso i più giovani, che si ostentino ruoli chiusi nella stretta ribalta di ‘femmine’ e ‘maschi’, proprio quando sono in corso le trasformazioni dell’ambito sessuale, che dagli e dalle studenti si ascoltino vanterie che ignorano l’ascolto degli altri e perfino di sé. E intanto gli adulti addetti alla formazione mostrano di disinteressarsi.
Le cronache italiane ripetono lamenti contro la smemoratezza ed il pressappochismo degli studenti. Si dà per scontato che l’apprendimento si fissi in profondità nel ciclo asettico dell’anno, indipendentemente dall’altro tempo, quello personale e pregnante di affettività. Mi domando se davvero ci si crede: il che sarebbe incuria di come giovi alla memorizzazione l’orizzonte complesso e confrontato, con le verifiche anche informali e i consolidamenti.
Opportuno dunque il seminario, per cominciare ad affrontare questi temi. «Se non ora, quando?»: così ci ammonisce l’urgenza di essere soggetti, di sapersi persone che hanno cura di sé e degli altri. Il riferimento ideale è al movimento proposto il 13 febbraio 2011, senza dimenticare l’autore dell’espressione, Primo Levi. La sua testimonianza, la sua ricerca di resistenza e di costruzione pubblica del senso, la stessa sua ironia restano un sostegno al nostro esserci.

2. Stereotipi verticalizzati, dunque canoni

Osservando gli appunti sui manuali, frequenti anche se non sistematici, provo a pronunciarmi sui desiderata, scorrendo vari manuali: ho cercato i più affidabili, ma ho volutamente insistere sulla critica, pur accettandone aspetti.
Nel seguire il dibattito pubblico sull’insegnamento della storia mi è stato utile un libro di Antonio Gioia sulla esposizione nei manuali della storia contemporanea1, per il motivo che l’esordio riporta i dibattiti verificatisi dopo il 1943. Un termine di utile confronto è stata una rivista della Svizzera francese edita di recente, una monografia sul tema della scuola sull’ottica di genere per fare il punto sulla formazione di tutti gli insegnanti, in quello stato curata dalle istituzioni2. Per gli atti recenti della Sis è da ricordare la discussione intorno ai manuali di storia nel 2013, al VI Congresso svoltosi a Padova e Venezia. Confrontando produzioni analoghe nel sistema culturale occidentale, in contesti istituzionali comunque diversi, sono stati esaminati in particolare due testi prodotti in Francia3. In essi le doti di sintesi, di scelta, di efficacia divulgativa sono preziose, evitando il nozionismo. Nel livello secondario il testo è compilato secondo una selezione attenta di episodi, offerti sia dagli storiografi sia dagli archivi di immagini. Questo induce a riflettere sulle potenzialità comunicative specifiche delle varie espressioni scritte o grafiche, ma anche sulle specifiche manipolazioni possibili.
Nel confronto stimolante, in cui la nostra manualistica risulta stagnante, viene da interrogarsi se ci sia stato il rinnovamento auspicato alla rifondazione democratica dello stato, dopo il periodo fascista. Carlo Dionisotti nel maggio 1945 aveva pur polemizzato con il connettivo storico imposto dal fascismo. Egli definiva la democrazia come il regime che non ostacola la divergenza: anzi, diceva, solo «attraverso tali divergenze e discussioni si potrà dare vita di libertà all’Italia e con essa alla scuola»4. Invece le persistenze sono prevalse mentre il rinnovamento è stato mediocre. Cresce dunque il desiderio di proporre l’arena delle persone, delle differenze culturali, del richiamo ai diritti umani.
Abbiamo accennato sopra agli stereotipi che chiudono le pose degli studenti nelle categorie maschio/femmina: si determina una lesione nell’ascolto e nell’interrelazione e si rende ardua anche la conoscenza del sé profondo, alimentando l’emarginazione e il malessere. Questo aspetto riguarda i comportamenti sociali. Facciamo ora un accostamento, una analogia fra quelle polarizzazioni comportamentali e la narrazione artificiosa della storia che, risalendo al tempo in cui fu impostato lo Stato unitario, fu realizzata nella scuola. Il canone a cui ci si è attenuti, per lo più naturalizzato come fosse una esperienza, assomiglia non poco a quegli automatismi che abbiamo definito stereotipi.
È risaputo come in Italia si sono formati canoni di narrazione storica: emulando i paesi europei del nord, poiché potenti oltre che avanzati tecnologicamente, si è legittimato di operare selezioni artificiose in società. Occorreva una collettività coesa per avere chances di potenza. Privilegiare segni e sogni al maschile fu consono ad un progetto di nazione in cui la guerra era una buona risorsa. L’ideologia della guerra contro l’oppressore, che era valsa nel Risorgimento, fu ripetuta nelle guerre successive, prima durante e dopo la Grande Guerra. Ben più a lungo, dunque, dell’esecratissimo periodo del fascismo.
Non dico certo che nella fase repubblicana siano mancate discussioni sulle materie scolastiche ed anche esperienze interessanti specie nel campo della scuola laboratoriale. L’impressione è quella di parentesi presto dimenticate. Nel 1961 Umberto Bosco notava la curiosa vitalità dell’histoire-bataille, asse resistente pur nelle novità: ripresentata nello studio «della seconda guerra mondiale, della resistenza, della lotta di liberazione, della Costituzione repubblicana, del tramonto del colonialismo, dei nuovi Stati nel mondo, degli istituti e delle organizzazioni tra i popoli»5.
La logica del rinnovamento concepito come aggiunta perdura. Nuove pagine appesantiscono i volumi: accade quando si fanno aggiornamenti sull’attualità, o quando il dibattito storiografico indica nuove fonti e nuovi soggetti. È dunque possibile che la stessa proposta di vedere la storia con lo sguardo di genere rischi di comportare altre pagine nel manuale. In effetti le verifiche in questo senso non mancano: magari lo spazio-donna è individuato nelle pagine dedicate a civiltà e società, senza intaccare nel lettore il pregiudizio generico della marginalità delle donne in ogni epoca.
Uno stile di manuale basato sulla documentazione per immagini sarebbe una forte novità, appropriata per testimoniare, disseminate nel tempo, presenze, gusti, le tendenze più varie. Lo deduco dalla incredibile declinazione di letture che accompagna mostre e cataloghi. Le varie epoche hanno propri equilibri e propri stereotipi, che gli storici possono riconoscere e interpretare, ma non travestire con modelli contemporanei.
Tuttavia allarmano le osservazioni di un’archivista specializzata, e socia della Sis, Monica Di Barbora, sull’uso disinvolto in Italia di immagini e di archivi fotografici. Su questi materiali, essa avverte, manovrano gli editori, imponendosi in modo non corretto agli autori, di cui alla fine non risultano trasparenti le assunzioni di responsabilità. D’altra parte archivi e narrazioni di storie culturali settoriali sono pure condizionati, come la storia generale, dallo stesso canone nazionalistico e maschilista. In tutti i campi di attività, anche dopo alcuni riconoscimenti onorevoli, con inquietante ricorrenza capita alle operatrici che siano dispersi o distrutti i loro documenti o che si consegnino a funzionari prevenuti. Davvero donne, cultura, archivi, storie generale e settoriali hanno sperimentato una relazione di evidenti disconoscimenti. È un’operazione profonda, teoricamente impegnativa, quella di rivedere la storia dal punto di vista del genere: può indurre a riformulare la scelta delle fasi, a discutere le periodizzazioni e i requisiti delle storie generali6. Metodiche apposite saggiano come usare le fonti in modo atto a rilevare le tracce delle donne. In particolare ricordiamo l’opera di Gianna Pomata7, che valorizza anche i residui di parole pronunciate dalle donne (il «gruppo silente», come dice la studiosa), sia nella percezione di sé sia nella interrelazione con gli ambienti.
Anche sull’incrocio tra letteratura e storia si attuano sondaggi: spesso la donna-personaggio è espediente per autori e autrici per esporre le proprie ideologie8.

3. Il fattore linguaggio e l’equilibrio tra fonti e storiografia

Negli annali della scuola i momenti di profondo e duraturo rinnovamento, con interazioni di soggetti molteplici, risultano, si è detto, episodi brevi e accantonati. È probabile, azzardo, che non abbia allignato un vero dibattito filosoficamente profondo, divenuto davvero persuasione collettiva. Proprio negli eventi filosofici, infatti, è tuttora misconosciuta, folklorica, la presenza di soggetti e di tematiche che vadano oltre il canone. Questa intermittenza perdura anche nello sforzo del rinnovamento linguistico. È noto infatti che, come è stato tardivo l’accesso alle professioni delle donne, resta tuttora un uso del linguaggio tale da denunciare l’imbarazzo, se non l’ostilità, ai percorsi sociali delle donne. Eppure già nel 1986 la studiosa e militante radicale Alma Sabatini aveva dato per conto della Presidenza del Consiglio suggerimenti accettabili per l’italiano, per superare la deminutio di cui sono investite le donne professioniste9. Su un altro piano si dovrebbe vigilare sugli usi del linguaggio a scopo di dileggio, un gioco sociale prossimo al sadismo. Il linguaggio diventa arma che coopera a ridurre e annichilire l’interlocutore, praticando una vera forma di violenza. Parlando di scuola questo aspetto deve essere tenuto presente e dare luogo a prese di posizione trasversali, coerenti tra tutto il personale, docente e non docente, per altro contrastando esplicitamente usi simili in corso nella società.
Torno più precisamente al manuale da proporre per la storia: la riflessione preliminare vede la disciplina come il campo d’azioni dei soggetti, uomini e donne, responsabili, capaci di percepirsi ed essere percepiti, oltre che attraversato da effetti, affioramenti, ri-significazioni10.
Per entrare in metodiche più specifiche, occorrendo esemplificazioni, riprenderò appunti di alcuni anni fa su un volume, oggi già rivisto, di un autore prestigioso11. Questa la procedura che risulta: si succedono grandi quadri generalizzanti, entro cui, con mezzi linguistici, sono introdotte fasi di puntualizzazioni. Il destinatario-studente è considerato reattivo: integrerà con deduzioni tratte dall’esperienza personale o dal senso comune, nel caso di domande del tipo: «Come non ricordare…?». Ma, opportunamente, la storia non procede lineare: l’inaspettato ne fa pure parte, come l’A. sottolinea. Alla fine, però, dell’esame compiuto resta il dubbio che nello studente venga ridotto lo sforzo di pensare il tempo passato come diversità.
Dopo la riflessione riprendo l’obiettivo della storia di gender in un corso scolastico. Ecco le preferenze: eviterei la mescolanza dei due momenti, quello generalizzante e quello particolare, accettando la generalizzazione se raggiunta nella monografia riferita, non come tecnica del manuale. Si potrebbe optare per una narrazione episodica: una antologia di saggi basati sulla ricerca circostanziata non mi sembra improponibile: il modello è quello della Storia delle donne in Occidente curata da G. Duby e M. Perrot. Nel percorrere le due piste, inoltre, sarebbe bene incontrare soggetti percepibili, riducendo le espressioni impersonali. Intenderei la sintesi in altro senso, ridotta ad un uso, diciamo così, didattico, come troviamo in buoni interventi editoriali che aprono la comprensione di un articolo, interpretando le difficoltà di chi si accosta da lettore. Si tratterebbe di offrire, cioè, un giro complessivo preliminare alla narrazione circostanziata, possibilmente stilato da un redattore apposito per tali presentazioni, e corredato di parole-chiave. È, insomma il metodo che troviamo nei libri presentati sui motori di ricerca elettronici: mi sembra che funzioni egregiamente.
Una scheda può schematizzare le mie preferenze.

In orizzontale, nei titoli di quattro colonne, indicherò le parti utili a comporre l’opera. Mostrerò meglio nel prossimo paragrafo, limitandomi ora ad elencare: il testo base, le schede integrative, le fonti, la storiografia. In verticale distinguerò in cinque righe le scelte di metodo: 1. Uniformità nel metodo; 2. Coordinate di organizzazione spazio-temporale; 3. I soggetti nei vari livelli, le persone nel loro spazio operativo, reale e simbolico; 4. Categorie interpretative prevalenti;5. Struttura discorsiva.

I manuali, si è detto, si sono attenuti ad una base retorica che continua a presentarsi nazionalistica. È però vistosa la novità di dedicare uno spazio articolato alla storiografia. Gli autori sono in genere aggiornati sulle novità editoriali e sulla rilevanza storiografica che esse rappresentano: laddove decenni fa la critica storiografica, raccolta in un libro a parte e indipendente, era dedicata ai capifila delle scuole storiche italiane.
La mia riflessione, forse condizionata dalla parte filologica della mia formazione, è che questa appendice assume talora un tono polemico, anziché fornire approfondimenti. Io credo invece che la sezione, di per sé opportuna, dovrebbe indicare le acquisizioni essenziali sui temi proposti, configurandone un po’ la fortuna nel tempo. In particolare è un obiettivo indicare agli studenti gli strumenti abituali nella ricerca, le fonti accreditate come tali a livello internazionale e presenti negli istituti universitari, la loro cura editoriale, le diversità di fonti che caratterizzano i diversi periodi storici. Un tale apparato non dovrebbe mancare di indicare i documenti religiosi e agiografici accanto a quelli laici: sull’insieme di queste collezioni è invalsa una scissione, una vera schizofrenia, nel tempo degli stati nazionali ottocenteschi, che non c’era nel tempo anteriore. Seguendo l’arricchirsi delle linee di ricerca, si indicherà come si sono espanse e rinnovate anche le fonti, segno di un approccio complesso e profondo alle problematiche umane, che guarda con sollecitudine alla elaborazione ad ogni livello dei soggetti, alla loro condizione interna ed esteriore.
È tempo di superare la denuncia delle subalternità storiche introducendo le persone e la loro sfera culturale, nella prospettiva di mondi che si intersecano, perché questo avvenga con obiettivi costruttivi e non di sopraffazione. Il nuovo patto di civiltà deve contemplare la differenza.

* Franca Bellucci – Gruppo di lavoro sulla didattica, Società Italiana delle Storiche

1 A. Gioia, Guerra, fascismo, resistenza. Avvenimenti e dibattito storiografico nei manuali di storia, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2012: qui l’A. verifica come tòpoi sottilmente nazionalistici permangono.

2 Devo qui citare la mia recensione per la Sis: F. Bellucci su I. Collet- I. Grin (a cura di.), Formation à la profession enseignante: des savoirs en tout genre, in «Formation et pratiques d’enseignement en question» n° 16 (2013).

3 Si tratta di La place des femmes dans l’histoire. Une histoire mixte, a cura di Mnémosyne, Association pour ledéveloppement de l’histoire des femmes et du genre, Parigi, Belin, 2010, e D. Lett, Hommes et femmes au Moyen-Âge. Histoire du genre. XIIe-XVe siècles, Parigi, Armand Colin, 2013.

4 C. Dionisotti, La storia e la scuola, in «Risorgimento», 15 maggio 1945, n. 2, pp. 190-192, ora in Id., Scritti sul fascismo e sulla Resistenza, Torino, Einaudi, 2008, p. 12, riporto da A. Gioia, Guerra, fascismo, resistenza, cit., p. 26.

5Ivi, p. 39.

6 Cfr. E. Valleri (a cura di), Ripensare l’insegnamento della storia. Curricolo verticale, genere e generazioni, Centro risorse educative didattiche ‘Le Corbinaie’, 2003. Esempio di storia ampia ma non generale, è M.T Mori, A. Pescarolo, A. Scattigno, S. Soldani (a cura di), Di generazione in generazione, Roma, Viella, 2014.

7 G. Pomata, La storia delle donne: una questione di confine, in Il mondo contemporaneo. Gli strumenti della ricerca, 2, Questioni di metodo, Firenze, La Nuova Italia, 1983, pp. 1440 ss.

8 Un esempio utile anche per le indicazioni bibliografiche: G. Baldissone, Il nome delle donne. Modelli letterari e metamorfosi storiche tra Lucrezia, Beatrice e le muse di Montale, Milano, Francoangeli, 2005.

9Cfr. A. Sabatini, Raccomandazioni per un uso non sessista della lingua italiana, Roma, Presidenza del Consiglio dei Ministri, 1986.

10 Parole del genere indicano che la storia non è in concezione progressiva. Per esempio cfr.: N. Loraux, Che cos’è una dea?, in G. Duby-M. Perrot (a cura di), Storia delle donne in Occidente. P. Schmitt Pantel (a cura di), L’Antichità, Roma-Bari, Laterza, 2000 (1990¹), pp. 13-55, qui p. 32.

11 A.M. Banti, Il senso del tempo. Manuale di storia 1350-1650, Bari, Laterza, 2009.