N. Y., ai primi del Novecento, era una città in gran parte di legno dove una qualsiasi dimenticanza o un soffio forte di vento o un mozzicone di sigaretta poteva innescare violenti incendi con perdite di vite.
Il 25 marzo 1911 il fuoco consumò gli ultimi tre piani dell’Asch Building, grattacielo all’angolo tra Greene Street e Washington Place, ad est di Washington Square Park, dove la Triangle Shirtwaist Company, di Max Blanck e Isaac Harris, produceva camicette bianche (shirtwaist), che la moda del tempo dettava a divisa e simbolo d’emancipazione sociale e appartenenza ‘urbana’ per operaie e impiegate quasi tutte d’estrazione provinciale e/o contadina, protagoniste della grande immigrazione interna ed esterna, a N. Y.
Morirono 126 operaie e 23 uomini. Gran parte delle vittime erano giovani, alcune adolescenti. Molte appartenevano alla stessa famiglia o erano parenti e amiche che le avevano raggiunte, “chiamate” a quel lavoro dalla rete che sempre connota l’immigrazione richiamando in un luogo famiglie o comunità intere.
Donne fiere di lavorare a un prodotto di qualità e di farlo bene; donne che si sentivano per la prima volta autosufficienti e accettavano lo sfruttamento per migliorare la propria vita e quella dei loro cari; 40% di loro erano d’origine italiana. Appartenevano alla prima o seconda generazione dell’ondata migratoria che fornì soprattutto manovalanza; gente poco istruita o analfabeta, che subiva l’emarginazione e le difficoltà d’integrazione, lingua compresa poiché parlavano quasi solo dialetti (una delle ragioni per cui la lingua italiana non si è internalizzata).
L’odierna emigrazione italiana è composta da persone più che istruite e qualificate ma le malsane radici dello sfruttamento lavorativo in generale e di quello femminile specie nel tessile, sprofondano nella realtà lavorativa dell’oggi. A questo rimanda il film Triangle, di Costanza Quatriglio, che parte dal rogo della fabbrica di shirtwaists per narrare il crollo del maglificio fantasma di Barletta (2011), dov’è perì anche la figlia dei proprietari (Cinquepalmi), uscita anticipatamente da scuola. Erano donne che lavoravano al nero, in un luogo pericoloso, per circa quattro euro l’ora e ben oltre le otto ore giornaliere. Negli occhi dell’unica sopravvissuta, Mariella Fasanella, dodici ore sotto le macerie, lo stesso orrore delle tante che in altre similari tragedie del lavoro non ce l’hanno fatta (il film, co-prodotto dalla Factory Film, Rai Cinema e Istituto Luce-Cinecittà, ha vinto il Nastro d’Argento 2015 e il Premio Cipputi).
Ester Rizzo lo cita in Camicette bianche. Oltre l’8 marzo (Navarra ed., 2014), dedicato all’incendio del Triangle ed elenca altre produzioni, teatrali e artistiche, che nel tempo hanno mantenuta viva l’attenzione su ciò che accadde in quell’edificio che oggi è dichiarato d’interesse storico nazionale (1991) e ospita la Facoltà di Scienze della N.Y. University.
La memoria del Triangle, ricorda Rizzo, deve moltissimo a Michael Hirsch che da oltre un decennio recupera le identità delle vittime alcune delle quali ancora senza nome e che – in occasione del cinquantennio della Commemorazione annuale celebrata davanti al grattacielo – rieditò The Triangle Fire, il classico di Leon Stein sul terribile evento, pagando anche appelli su giornali locali per trovare altre testimonianze.
La Commemorazione, poche volte saltata nel tempo, è una rara occasione di sentimenti, solidarietà e memoria che non ha mai perso la sua commossa autenticità.
Uniti dal dolore, dall’amicizia, dal rispetto per le vittime e per la loro dignità, i discendenti, i parenti vicini e lontani, gli/le esponenti sindacali – in primis l’International Ladies’Garment Workers’Union che ha posto una targa – le istituzioni cittadine e i pompieri (che all’epoca non avevano scale abbastanza alte per intervenire), rinnovano i ricordi, pronunciano i nomi delle vittime, esibiscono ritratti e innalzano “camicette bianche” di cartone su bastoni, con il nome di una vittima.
“In the heart of New York City, near Washington Square,/ In nineteen eleven, March winds were cold and bare,/ A fire broke out in a building, ten stories high,/ And a hundred and forty six young girls in those flames did die” cantano i versi popolari di Ruth Rubin (1968); granelli nella mole dei documenti conservati nel Memorial della Cornell University, tappa obbligata per conoscere tutto sulla vicenda: nomi, provenienze, biografie, lettere, fotografie.
Altrettanto empatica la terrifica spettacolarità dell’apertura di Camicette bianche:
“Non erano balle preziose di stoffa quelle che i passanti videro volare dall’Asch Building. Erano i corpi delle operaie della Triangle Shirtwaist Company. Cadevano giù a decine, alcune con i vestiti e i capelli in fiamme. Dissero che somigliavano alle comete. (…) Sul marciapiede una sessantina di corpi, alcuni ammucchiati. Nell’aria le grida delle donne e i pianti degli uomini. Quella folla aveva visto l’esitazione di alcune ragazze sui davanzali, aveva visto due di loro abbracciarsi e precipitare giù insieme, aveva visto un uomo e una giovane donna baciarsi prima di gettarsi.” (op. cit., p. 13)
Le testimonianze agghiaccianti, lo strazio d’intere comunità, la commozione per l’età e l’estrazione di chi per migliorarsi e migliorare la vita di chi amavano aveva sacrificato la sua.
Sgomento e sdegno dilagarono nell’opininione pubblica in cui l’International Ladies’Garment Workers’Union si schierò con le famiglie delle vittime e chiese nuove leggi sulla sicurezza sul lavoro.
Fu l’inizio di un crescente impegno sindacale che la rese un’organizzazione di grande respiro e una delle più forti, attualmente, in Usa.
Tragica sintesi di problematiche sociali, culturali e politiche, il rogo del Triangle mostrò quanto poco valesse la vita umana per i due ricchissimi immigrati russi e quanto mancasse attenzione e solidarietà anche tra immigrati.
Blanck e Harris si trovavano al decimo piano e fuggirono sul tetto pur avendo le chiavi delle porte che bloccavano le uscite dall’ottavo e al nono piano dove le operaie erano state chiuse per impedire pause senza permesso o di uscirne senza essere perquisite a caccia di ritagli di stoffe, aghi e fili preziosissimi per chi non aveva niente.
Cosa radicò il Triangle nell’immaginario collettivo da confonderlo con il rogo di altra fabbrica di camicie a N. Y. (Cotton, di Mr. Johnson, 1908), collegato alla Giornata internazionale delle donne? Rogo su cui, dagli anni Settanta, s’è accumulata letteratura asserzionista e negativista (es. Tilde Capomazza e Marisa Ombra, 8 marzo. Una storia lunga un secolo, 2009; Temma Kaplan, On the Socialist Origins of International Women’s Day, in «Feminist Studies», 11, 1, 1985).
Una delle più antiche risposte è sindacale. Le camiciaie di N. Y. cominciarono a scioperare negli anni Cinquanta dell’Ottocento. Un primo Woman’s day fu celebrato il 23 febbraio 1909 e un secondo il 27 febbraio 1910 a conclusione di una nuova stagione di scioperi (dal 22 novembre al 15 febbraio 1910), sembra iniziata proprio alla Shirtwaist Company (già largamente affermata). Nelle due occasioni, le rivendicazioni sindacali si unirono a quelle per il voto.
Anche le 100 rappresentanti di 17 paesi, riunite in Germania (8 marzo 1914), unirono i due temi e assunsero a risoluzione l’istituzione della Giornata internazionale della donna presente nel Die Gleichheit di Clara Zetkin. Dopo lunga strada, con molte tappe e qualche cambio di data, la Giornata fu ufficializzata l’8 marzo dall’Onu.
La rivendicazione di un giusto guadagno, di un lavoro protetto, di diritti civili apparteneva perciò alle operaie del Triangle, fu da subito un cavallo di battaglia in chi non si rassegnò a che la loro morte cadesse nell’inutilità e nel silenzio. Al dolore corale si aggiunse, otto mesi dopo, lo sgomento e lo sdegno per un processo che vide assolti Harris e Blank dall’omicidio doloso e non riconobbe loro “neppure la colpa della chiusura delle porte, gettata sui caporali. “Caporali che sfruttavano ulteriormente le donne, decurtando la loro busta paga di una percentuale che intascavano direttamente” ricorda Rizzo nel sottolineare ulteriori ingiustizie: dei 445 dollari per persona deceduta ottenuta in risarcimento dai due proprietari, solo 75 andarono alle famiglie delle vittime anche quando ne contassero più d’una o ci fossero orfani in tenera età o genitori anziani. Chi rifiutò l’indegna cifra si dovette arrendere per fame.
Molto toccante, Camicette Bianche unisce alla ricerca bibliografica, articolistica e sitografica, alla narrazione di doverose visite ad Ellis Island (la porta d’ingresso dell’America), e al Memorial, l’indagine sul contesto presentando personagge importanti delle lotte sindacali e per il voto legate al Triangle: es. Anne Morgan organizzò con donne della sua stessa alta levatura morale e sociale, una “brigata del visone” che durante le manifestazioni di sciopero (dal 1909) s’affiancò alle operaie per evitare le cariche della polizia e ne sostenne anche economicamente le rivendicazioni. Anne era avvocata, forniva assistenza gratuita alle operaie, ne pagava le loro cauzioni, “Devolse una parte della sua eredità, nel 1913, per supportare le lotte delle donne.” (op. cit., p. 78)
A sua volta Francis Perkins, avendo assistito al rogo del Triangle, si dedicò alle lotte sindacali. “Prese parte a vari comitati ispettivi che si costituirono dopo l’incendio (…) diventò segretaria del Lavoro negli Usa durante le presidenze Roosevelt e Truman (…) grazie a lei furono introdotte: la legge sul salario minimo, l’indennità di disoccupazione, l’erogazione di benefit alle fasce più povere della società e varie leggi per prevenire gli incidenti sul lavoro.” (op. cit., p. 79).
Ogni volta che le è stato possibile, Ester Rizzo ha cercato un contatto diretto con le famiglie delle vittime e lo ha fatto anche in Italia impegnandosi, con il gruppo di Toponomastica, a sollecitare atti di riconoscimento concreto (targhe, strade, ecc.), ai paesi originari delle Italiane vittime del Triangle.
“In Sicilia sono tre i Comuni che hanno recuperato la memoria: Marsala per Caterina, Lucia e Rosaria Maltese; Casteldaccia per Provvidenza Bucalo Panno e Vincenza Pinello; Licata per Clotilde Terranonva”.
Altri Comuni si stanno aggiungendo e molte scuole e insegnanti sono coinvolte/i in un percorso innovativo avviato da Maria Pia Ercolini che, nel Contributo al libro scrive: “Il cammino verso la parità ha bisogno di essere condiviso nei suoi aspetti simbolici che plasmano l’immaginario collettivo in modo irrazionale e persistente: riconoscerne i segni aiuta a sovrapporre un apparato giuridico efficace a un comportamento adeguato e consapevole. La toponomastica è un rilevatore sociale.”
“L’amore per una cosa o per una persona deve iniziare dal rispettarla, e il rispetto inizia da quello verso se stessi”, conclude a sua volta Giuseppina Tripodi nella Prefazione cui acclude una lunga e toccante poesia.