Vi proponiamo l’articolo di Giacomo Gambaro uscito sul nostro blog  http://www.libreriadelledonnepadova.it/il-maschile-sia-un-campo-di-battaglia

La questione è maschile

Nell’ oramai lontano 1996, la Libreria delle donne di Milano – storico spazio di libertà femminile, oltre che audace laboratorio politico – pubblica il “Sottosopra” rosso intitolato È accaduto non per caso. Si tratta di un documento dirompente, nella misura in cui ha il coraggio di nominare l’evento della “fine del patriarcato”. Il patriarcato – si dichiara – non fa più ordine nella mente di lei (della/e donna/e) e, di conseguenza, deperisce in quanto ordine simbolico. Cosa significa che il patriarcato viene a capitolare in quanto ordine simbolico? Significa per l’appunto che lei non ci sta più, che lei è un’“altra”, cioè che il “credito” femminile alla civiltà maschile è venuto meno: nella sua mente gli “aut aut” patriarcali non fanno più presa.

Insomma, il patriarcato in quanto monopolio maschile del senso si è irreversibilmente incrinato. La civiltà maschile è giunta al capolinea, soprattutto perché non dispone più dei mezzi per conferire un’identità stabile alle donne e, di converso, agli uomini. Per meglio dire, i criteri patriarcali di assegnazione dell’identità vengono progressivamente meno. Questo è avvenuto – come recita il titolo del “Sottosopra” – non per caso: è stata l’irruzione della libertà femminile, con il femminismo radicale, con la politica delle donne, a suonare le campane a morto dell’ordine degli uomini.

Come ho accennato, se il patriarcato non risulta più in grado di identificare, localizzare (e neutralizzare) le donne in un’identificazione stabile, esso non può neppure più “fare ordine” nella mente di lui, degli uomini. Qui però sollevo una criticità, o per meglio dire una difficoltà inerente all’orizzonte maschile. Un uomo che non dispone più dei criteri per regolare il proprio condursi nel mondo, infatti, non è detto che sia all’altezza di affrancarsi per davvero dai vincoli con il potere patriarcale. In altre parole, credo che il fatto che il patriarcato non riesca più a “dare senso” alla vita maschile non implica – per così dire, linearmente, meccanicamente – un’altra postura da parte degli uomini. Detto con il nostro linguaggio: il crollo del patriarcato è una condizione necessaria per la “differenza maschile”, ma questo non vuol dire che sia anche sufficiente.

Certo, si è aperta – e questo grazie alla politica delle donne – un’inestimabile opportunità di libertà per gli uomini. Oggi un uomo può (anche se spesso non se ne rende conto) sperimentare maniere inedite di relazionarsi, anche con altri uomini. Un uomo, finito il patriarcato, può per davvero avviare un processo di trasformazione di sé, ciò che non è senza legami (anzi) con la “scoperta” di una nuova felicità possibile.

Tuttavia, questa preziosa opportunità il più delle volte non viene colta. Il fatto che noi uomini viviamo la fine del patriarcato (anche, se non sempre) nel segno della mancanza, dello smarrimento, significa evidentemente che non siamo effettivamente capaci di costruire la differenza maschile. Quel che è peggio è che l’esplosione della “questione maschile” ci immette – spesso per l’incapacità di cui ho appena parlato – in uno scenario inquietante, fatto di nuovi meccanismi di soggezione, di mercificazione di sé e immancabilmente dell’altra, di torbidi tentativi di restaurare, pur in modi nuovi, il vecchio dominio patriarcale.

Di cosa ci parlano, infatti, gli ultimi decenni? Lo scenario, per quel che riguarda noi uomini, è desolante: alzano la testa forme di maschilità paranoiche e revansciste, dichiaratamente anti-femministe, con i loro vessilli fatti di minacce, ritorsioni, efferatezze verso le donne, i migranti, le cosiddette “minoranze” (che poi minoranze non sono!), le classi popolari, gli uomini considerati “non conformi”, eccetera. Si tratta di forme inquietanti di maschilità che come se non bastasse rinvengono nei “messaggi” razzisti, nazionalisti e, sempre più, esplicitamente fascisti il proprio orizzonte – nauseabondo – di “senso”. Non a caso, in tutto il mondo il revanscismo di questi uomini viene palesemente capitalizzato in termini elettorali, politici. Le “sparate” disgustosamente machiste di Donald Trump non sono barzellette di cattivo gusto: sono parte del vero e proprio “reclutamento” indirizzato alla popolazione maschile. Per quel che riguarda l’Italia, poi, le cose non cambiano più di tanto. Pillon, per fare un esempio, non è un ingenuo: in innumerevoli occasioni ha dichiarato che intende svuotare, se non più radicalmente abolire, ogni conquista conseguita dalle donne. Lungi dall’essere “folclore”, questa io la chiamo una tremenda strategia reazionaria. Una strategia che, neanche a dirlo, si appunta sulla valorizzazione delle istanze di queste che ho denominato “maschilità paranoiche e revansciste”.

Si tratta, come evidente, del tentativo di riallestire il dominio maschile in un’epoca che, a differenza di quella passata, vede la libertà femminile “farsi mondo”. Progetto apparentemente fallace e destinato all’insuccesso, tanto più che le donne risultano sempre più consapevoli della valenza dirompente della propria autodeterminazione. Certo è che, seppur tra mille difficoltà, questi tentativi si moltiplicano e concatenano rinviando l’uno all’altro in modo drammaticamente coerente.

Spero di avere offerto alcuni elementi per comprendere appieno il seguente fatto: la questione è maschile. Questo non significa certo negare o ridimensionare il carattere decisivo e, come credo, imprescindibile della politica delle donne. Semmai, si tratta proprio di capire che oggi, per un uomo, c’è una via alternativa al venire inghiottiti dalla maschilità paranoide. Questa via alternativa, che poi è uno spazio mobile e niente affatto garantito circa gli esiti possibili, è tracciata da quanto ho definito nei termini del “farsi mondo” della libertà femminile. Lo dico concisamente: per dare uno sbocco positivo e liberatorio al “vicolo cieco” in cui ci troviamo è proprio dalla politica delle donne – anzitutto dal gesto femminista di rottura – che dobbiamo ripartire. Ciò non significa scimmiottare o riprodurre artificiosamente pratiche e impostazioni che unicamente in virtù dell’esperienza femminile possono porsi nella loro fecondità. Significa, invece, avviare un proprio percorso di evasione – di diserzione – dai modelli (post)patriarcali sintonizzandosi con un’altra maniera di concepire e di esercitare la politica.

Noi giovani uomini alla ricerca della differenza maschile non possiamo che rendere produttiva l’odierna “questione maschile”. In breve, occorre trasvalutare il disorientamento in affermazione, la mancanza in progettualità. Fuor di metafora: rendiamo il maschile un campo di battaglia.

La contesa sull’immaginario (maschile)

Ho detto che il tramonto del patriarcato in quanto ordine simbolico atto a conferire identità stabili è venuto meno. La libertà femminile ha provocato lo scardinamento generale delle mediazioni, dei criteri e dei sistemi con cui la civiltà maschile perpetuava la sua vigenza. Ho però aggiunto un elemento dirimente: la fine del patriarcato non equivale linearmente allo scaturire di un nuovo condursi maschile nel mondo. Sembra insomma che nella mente di lui sussistano ancora dei vincoli, o per così dire delle “scorie” di marca patriarcale. Tentiamo adesso di fare un passo ulteriore.

Nella mia esperienza di uomo appartenente alle cosiddette “nuove generazioni” mi è capitato di sentire ed in seguito di riconoscere una strana “contraddizione”: da un lato potevo contare sulla ricchezza e sul dinamismo di relazioni con uomini e donne, relazioni che mi mettevano anche profondamente in discussione, ma che non mi immiserivano né mi opprimevano, dall’altro il mio stesso immaginario – la mia forma mentis di uomo, ancorché giovane – presentava chiaramente degli elementi di vero e proprio “automatismo” nel sentimento, nella percezione di sé e dell’altra/o, nello stesso significato che attribuivo ai rapporti. Questo “automatismo del sentire” (e del giudicare) anni dopo l’ho riconosciuto quale uno dei molti “frutti avvelenati” ereditati dal modello di vita maschile-patriarcale. Insomma, percepivo (pur non nominandola ancora) una grande scollatura – e talvolta anche un’autentica contrapposizione – tra i due poli di relazioni ed immaginario. Ancora oggi mi capita spesso di percepire questa divaricazione: le relazioni esibiscono un’eccedenza che l’immaginario non “registra”. Il fatto che l’immaginario di un giovane, di un uomo, non registri il surplus delle relazioni, oltre ad essere indubbiamente un fatto significativo ed emblematico, rischia di condurre alla mortificazione della ricchezza virtuale custodita nei rapporti.

Si tratta di un punto decisivo. Infatti, credo che la mancata convergenza tra immaginario e relazioni renda quest’ultime più povere e, di converso, corrobori l’automatismo del sentire di cui ho parlato. Dico una cosa che proviene direttamente dalla mia esperienza: i veri “scatti in avanti” nella coscienza della mia condizione e delle sue potenzialità sono tutti espressioni di quei rari momenti in cui l’automatismo si inceppa, in cui prevale l’eccedenza delle relazioni, in cui insomma l’immaginario viene ad incontrare il nucleo vivificante dei rapporti, soprattutto dei rapporti con le donne. Schematicamente, la coscienza del mio essere parzialità, che è condizione per il mio pormi in quanto differenza, si insedia nella misura in cui l’immaginario si dispone alla feconda ricezione del surplus delle relazioni.

Tutto ciò potrà apparire niente più che un’acquisizione di carattere intimistico, introspettivo. Non è così. Di contro, nella sfasatura tra immaginario e relazioni io riconosco un elemento a tutti gli effetti politico. Pensiamoci: oggi vi sono ingenti e capillari meccanismi di potere che si intrufolano e modellano a loro unico beneficio questa non convergenza tra immaginario e relazioni. Finché dura la disgiunzione tra le due componenti nessuna politica della differenza maschile è praticabile (tanto più che non riceve il suo sfondo, la sua comprensibilità). Finché persiste questo iato, gli unici beneficiari saranno sempre i sistemi di potere, non ultimo quello che valorizza e promuove le istanze delle maschilità paranoico-revansciste.

Per chiarire quest’ultimo assunto, faccio un esempio. Oggi si parla molto di neoliberalismo. Con questo termine, non si deve intendere certo soltanto una peculiare “teoria” di carattere economico. Semmai, è una vera e propria razionalità di governo dell’esistente. Ebbene, il neoliberalismo mi sembra lucrare proprio su questa dissociazione tra immaginario e relazioni. Detto chiaramente: il surplus delle relazioni, il loro essere fonte di dinamismo e di sempre ulteriore eccedenza, viene “catturato” da un immaginario – più o meno serializzato, anche se flessibile – che induce ogni soggetto a considerarsi impresa, come tale da potenziare con performance tanto rischiose quanto (potenzialmente) lucrative. Il neoliberalismo, così penso, mette in valore il surplus dei rapporti al fine di commutarlo in guadagno quantificabile, “monetizzabile”. Quel che mi sembra assai importante è capire che la razionalità neoliberale vige se perdura l’incomunicabilità tra i due ambiti dell’immaginario e delle relazioni. Più precisamente, il neoliberalismo conta sulla riconduzione dell’eccedenza delle relazioni a format di immaginario facilmente controllabili e neutralizzabili. Le relazioni fungono – diciamolo con le categorie di Marx – da capitale variabile, l’immaginario da capitale fisso: dai rapporti vengono estorti gradienti sempre maggiori di “plusvalenza” da parte di un modello di immaginario preformato e “sicuro”.

Pensiamo alla pornografia (soprattutto mainstream). Il rapporto tra uomo e donna, che si gioca nella vita reale e che come tale presenta sempre dei tratti di imprevedibilità e variazione, non viene meramente negato dalla pornografia, ma messo in valore. I rapporti, le situazioni, le caratteristiche di nuovo conio, popolano i circuiti pornografici. L’erotismo tra uomo e donna viene insomma capitalizzato per mezzo della sua restituzione totalmente sussunta ad un immaginario machista.

La sfida della differenza maschile passa chiaramente dalla articolazione – inedita – di immaginario e relazioni. La mia tesi però è che per affermare la differenza è necessario per così dire “dare la parola” alle relazioni. I meccanismi di potere attuali vertono tutti sulla “cattura” delle relazioni da parte di un immaginario “fisso” e prestabilito. Noi dovremo invece sintonizzarci con i rapporti e con la loro eccedenza – il loro surplus – per modulare ed alterare l’immaginario. Il nostro, insomma, è un obiettivo assolutamente materialista, laddove però il materialismo cui mi riferisco non è rivolto alle “cose” ed alla “materia” amorfa, ma alla scintilla di vita racchiusa nei rapporti e da loro veicolata. Un materialismo relazionale? Sì, è quello che intendo.

Da quanto ho sostenuto, si può evincere che – a mio parere – quanto da più parti definito “questione maschile” implica quale sua declinazione politica la questione della colonizzazione dell’immaginario, soprattutto dell’immaginario degli uomini e, tra loro, dei più giovani.

La colonizzazione dell’immaginario, tentata e per molti aspetti realizzata da quel convulso “combinato disposto” di (post)patriarcato, neoliberalismo e populismo reazionario, rende la pratica della cosiddetta “autocoscienza maschile” una premessa insostituibile. È infatti l’autocoscienza che consente ad un uomo di “decentrarsi”, di ricondurre a visibilità i vincoli con i meccanismi di potere, insomma di avviare un processo di decostruzione di sé. Questa decostruzione va di pari passo con la questione della possibilità di intraprendere una contesa sull’immaginario maschile, perché permette di de-saturare la “mente” di lui in virtù della sporgenza e dell’eccedenza delle relazioni con le donne, ma anche con gli uomini.

Avanzo in proposito un’ulteriore problematica. Si tratta della necessità non soltanto di destrutturare il “blindaggio”, la “chiusura” dell’immaginario maschile – in cui a mio giudizio consiste primariamente l’autocoscienza per un uomo -, ma anche di porre le condizioni per delineare una traiettoria costruttiva che possa venire abitata dagli uomini, dai giovani. Una traiettoria “costruttiva”, dico. Voglio far capire che non è sufficiente la decostruzione, o se si vuole lo spirito di negazione, di smantellamento. Certo questo è un momento necessario e costituente: liberare “spazi” di pensabilità e di agibilità è una precondizione inaggirabile. Ma questi spazi, allo stesso tempo, non possono venire “lasciati a se stessi”. Vanno per così dire “riempiti”. Ma qui veniamo a un problema immenso. Come riuscire, infatti, a sostanziare di pregnanza e – passatemi il termine – di “positività” questi spazi “bonificati” senza con ciò cimentarsi nel vano, velleitario e, sono convinto, sbagliato tentativo di costituire nuove norme, nuovi modelli, nuove identificazioni monolitiche ed occlusive?

Non ho – né posso avere – una risposta puntuale e definitiva a questo interrogativo. Mi sono finora sempre posto il problema (tuttora cogente) di produrre dei vuoti nell’immaginario maschile, anzitutto nel mio immaginario. Produrre dei vuoti, dico, per permettere all’eccedenza delle relazioni di risuonare meglio e con più efficacia – questo è stato il senso del mio impegno da anni, da quando nella mia vita sono entrate le istanze della differenza, del femminismo, della politica delle donne.

Non mi nascondo, però, che il dilemma c’è eccome. Se ad un ragazzo – e a noi stessi, del resto – gli dici che deve rimuovere, scrostare, decostruire, svuotare e però al contempo non gli dai un po’ di ossigeno, un po’ di agio, una scheggia di senso in cui soggiornare e “ritrovarsi”, non sorprenderti che in lui la tentazione di consentire al suo “reclutamento” nelle file delle maschilità paranoico-revansciste non venga meno. Diciamolo brevemente: io gli posso dare tutta la libertà possibile, ma se questa libertà non si “fa carne” e maniera di condursi, se non attecchisce nella sua quotidianità, nelle scelte che deve fare, lui presumibilmente sceglierà sempre chi gli dà un boccone, anche se gli ha messo un giogo sulle spalle.

Ovviamente, non penso che il “dilemma” possa venire risolto per via esclusivamente teorica. Sono necessarie le pratiche, le esperienze, i posizionamenti politici. Però il pensiero può pur sempre aiutare. Di conseguenza, penso non sia tempo perso riflettere e confrontarsi davvero su questa problematica così apparentemente insolubile.

Di mio, credo fermamente che non si possa transigere con i modelli, i codici, le norme (post)patriarcali. L’idea di ri-significare l’immaginario reazionario, paranoico e revanscista in funzione di un suo depotenziamento è un’assurdità colossale!

Faccio un esempio. Oggi sono in tanti a pensare che, in fondo, la prostituzione vada legalizzata. Si dice che, così, si sottrarrà la prostituzione al suo nucleo torbido, opaco, meschino. A parte che sfido queste persone ad individuare il discrimine tra prostituzione e “opacità”. Il più delle volte i discorsi sono pregiudizievolmente rivolti allo schema del “meno peggio”. Ma se il “meno peggio” viene legalizzato, non diventa pessimo?

Poi si dice una cosa a mio giudizio sconvolgente: si dice che se la prostituzione venisse estesa anche agli uomini (che sarebbero così prostituti) cesserebbe di essere uno stigma. Ora, posto che generalizzare una condizione opaca non produce più luce, ma una tenebra universale, ci si è mai chiesti perché gli uomini non si prostituiscano (almeno, non quanto le donne)?

Forse perché il nesso sesso-denaro non attecchisce in quella parte di popolazione – gli uomini – che hanno il potere? E allora, mi chiedo: invece di dire che vendersi per soldi non fa problema, non sarà che si occulta sempre e immancabilmente il vero nocciolo della questione, il “nucleo opaco” del potere maschile?

Allora, invece di legalizzare la prostituzione (come vogliono tanti maschi liberal sedicenti progressisti, emancipati e altre sconcezze) per “limitare i danni”, non dovremmo porci l’obiettivo politico di sbarazzarci del vincolo tra maschilità e potere?

Fino a quando si tenterà di “limitare i danni” con la delirante logica del “meno peggio” non verranno prodotti veri smottamenti. Le vere rivoluzioni non prendono piede per “smussare gli spigoli”, ma per rovesciare il tavolo.  (9 novembre 2018)

——   Giacomo Gambaro è nato a padova il 20 aprile 1990. Insegna alla facoltà di scienze della comunicazione Etica ed estetica dei linguaggi comunicativi. i suoi  ambiti di interesse: filosofia classica tedesca, filosofia politica, storia dell’estetica. E’ autore  del capitolo “Antonio Gramsci: dal liberismo ai Consigli di fabbrica” contenuto in “Il fantasma dell’Unità”, Mimesis, Milano, 2013,  del capitolo “Dal teatro allo scacchiere. La concezione del potere di Bernard Mandeville” in “Prima e dopo il Leviatano”. Autore della monografia sulla filosofia pratica di J. G. Fichte negli anni 1812-1813 –  In aggiunta, ha conseguito il dottorato di ricerca in filosofia con una tesi intitolata Corporeità e piacere nel pensiero della differenza sessuale. I suoi principali ambiti di ricerca sono la filosofia trascendentale di Kant e di Fichte, il rapporto tra trascendentalismo ed immaginazione e, non da ultimo, la questione dell’immaginario contemporaneo a partire dal pensiero femminista.

e-mail: giacomo.gambaro@uniettunouniversity.net