“Il femminismo non è riuscito a generalizzare la sua cultura, che riguarda uomini e donne, sfera pubblica e sfera privata” perché è rimasto impantanato nella cultura dominante di cui usa i perversi meccanismi che impediscono di trovare risposte significative

Ho appena finito di scrivere un saggio, intitolato “{{ {La razionalità femminile
unico antidoto alla guerra} }}”, dove esplicito i motivi per cui il femminismo
mondiale è afasico e rapsodico. Tali motivi vengono confermati in pieno dall’articolo di Lea Melandri, [Perché il femminismo non sfonda adesso che
potrebbe?->2709], apparso su {Liberazione} del 15 ottobre u.s. e ripreso da {Il Paese
delle donne on line}.

Riconoscendo che il femminismo ha perso col tempo
radicalità e coraggio, per risolvere il problema Melandri non trova niente
di meglio che ricorrere con Laura Kreyder ad “un salvifico bilinguismo”,
cioè “il ragionare con la memoria profonda di sé, la lingua intima dell’infanzia e, contemporaneamente, con le parole di fuori, i linguaggi della
vita sociale, del lavoro, delle istituzioni”.

In una parola {{mantiene il
sistema binario}}, causa delle infinite opposizioni che lacerano il mondo,
anzi lo rafforza permanendo al suo interno.
_ Appiattire la realtà su coppie di contrari in eterno conflitto, pendolare da
un polo all’altro alla ricerca di impossibili sintesi, è tipico della mente
maschile.
_ “Il femminismo non è riuscito a generalizzare la sua cultura, che riguarda uomini e donne, sfera pubblica e sfera privata” perché è rimasto impantanato nella cultura dominante di cui usa i perversi meccanismi che impediscono di trovare risposte significative.

Melandri, d’altra parte, non
pensa che il compito del femminismo sia tanto di dare risposte (come mai,
ritiene forse che le donne non ne siano capaci?), quanto di “porre
interrogativi al contesto in cui viviamo, in modo meno semplicistico di
quanto non si faccia di solito”, lasciando intendere che i contesti in cui
viviamo, intrinsecamente irrazionali e disumani, abbiano bisogno di qualche
modifica qua e là non di un altro, affatto diverso, punto di vista.

Per la verità dice che bisognerebbe “recuperare la radicalità dello sguardo,
del punto di vista che ha caratterizzato il femminismo ai suoi inizi”, ma
ritiene che ciò sia possibile semplicemente pronunciandosi “non solo su
questioni specifiche, come la procreazione medicalmente assistita, i
consultori, la violenza maschile contro le donne, ma su fenomeni che
investono tutta la società: la crisi dei partiti, il trionfo dell’
antipolitica, il populismo, le politiche sicuritarie, la xenofobia, la crisi
della famiglia, le battaglie per i diritti civili, le biotecnologie”.

Ma
pronunciarsi su questa gran mole di questioni in modo efficace non comporta
forse un modo diverso di stare al mondo e di conoscerlo?
_ Come mai Melandri
non ritiene che fra i compiti del femminismo vi sia prioritariamente l’
elaborazione di un diverso sistema cognitivo capace di superare la semplice
mediazione dialettica, che lascia intatta la visione dicotomica, attraverso
la piena assunzione della complessità del reale in cui stemperare la spinta
aggressiva dei poli opposti?

Secondo me l’originaria tendenza delle femministe alla “costruzione di sé
come individualità che si pone…nella sua interezza” come “corpo pensante” è
stata interrotta e fuorviata dalla{{ permanenza nei paradigmi interpretativi
maschili}}, che hanno impedito al pensiero delle donne il pieno recupero della
corporeità vivente e delle qualità connettive ad essa inerenti,
trattenendolo nel mondo maschile atomizzato, esageratamente conflittuale,
astratto; prova ne sia la suddivisione in diversi orientamenti che,
riproducendo ciascuno la parzialità dello sguardo maschile, sono
impossibilitati a confrontarsi costruttivamente sia fra loro sia con chi,
come la sottoscritta, si situa all’esterno.

La teoria del corpo pensante da me elaborata mostra che è possibile fare il
salto di qualità, è necessario però {{riportare il processo conoscitivo che l’autocoscienza ha spostato “in prossimità del corpo”, al corpo vivente}} ed
alla sua esperienza; bisogna che il pensiero delle donne non sostenga “lo
strappo del pensiero maschile dalle sue radici biologiche”, ma ritrovi le
“radici dell’umano” proprio nella biologia, meglio in una diversa concezione
che le riconosca le reali caratteristiche di plasticità, variabilità e
varietà senza le quali nessuna specie si sarebbe potuta mantenere sulla
terra.

Le donne potranno trovare l’auspicata radicalità e il coraggio solo quando
recupereranno pienamente la coscienza di ciò che esse hanno rappresentato e
rappresentano per la specie, a cui assicurano in uno all’esistenza l’evoluzione della mente, e allorché si persuaderanno a restituire il giusto
valore a ciò che loro fanno, denunciando con fermezza la profonda
irrazionalità e l’abissale ignoranza insite nel disprezzo maschile per la
natura vivente, la sola in grado di sentire, conoscere, agire.