Parigi, 16 maggio 2012. Le 17 donne del governo Ayrault sono un inno alle differenze: differenti come donne rispetto ai loro 17 colleghi, ma anche differenti fra di loro, giovani e anziane, bianche e nere, nate sui territori della Repubblica o arrivate in Francia sulle vie dell’immigrazione da lontane parti del mondo.Le loro biografie non sono ancora sul sito del Governo, come del resto non ci sono quelle degli altri ministri, ed è girando su siti e blog che sono riuscita a farmi un’idea di questa squadra che vista da qui, dal nostro Paese governato da uomini anziani e bianchi, appare straordinaria.

Hanno ministeri pesanti, che contano tanto quanto quelli dei loro colleghi. L’equilibro fra uomini e donne è stato rispettato con puntiglio: sono 9 su 18 le ministr*, e 8 su 16 le ministr* delegat* (figura intermedia fra ministr* e segretari* di stato, viceministr* diremmo noi).
L’elenco completo, uomini compresi, si trova su www.gouvernement.fr/gouvernement/composition-du-gouvernement.

Ma vediamole più da vicino, cominciando con l’età. Per quanto non condivida l’opinione del sindaco della mia città che “giovane è meglio, sempre e comunque” non può non colpirmi il fatto che sono tutte più giovani di me: le più grandi hanno circa 65 anni, e una di loro, Marylise Lebranchu, qui ministra per la riforma dello stato e della funzione pubblica, è già stata Guardasigilli e ministra delle Giustizia nel governo Jospin una decina d’anni fa. Le più giovani sono nate negli anni ’70 (due nel 1977, 1 nel 1975 e tre nel 1973), sono cioè di quella generazione che da noi affonda nella palude del precariato professionale e che la politica tende a ignorare (ricambiata).

Christiane Taubira, la nuova ministra Guardasigilli, è nata a Cayenne (Guyane), territorio francese d’Oltremare; Najat Belkacem-Vallaut, portavoce del governo e ministra dei diritti delle donne, è nata in Marocco, ha raggiunto il padre e la sorella in Francia a 5 anni ed è cresciuta nella periferia di Amiens; Fleur Pellerin, sui cui documenti c’è ancora il nome Jong-Sook (chiara, trasparente) è nata a Seul (Corea) ed è stata adottata a sei mesi. Adesso è ministra delegata alle piccole e medie imprese e all’innovazione.
Yamina Benguigui, che non è esattamente una migrante, essendo semplicemente una franco-algerina, all’analisi e alla rappresentazione dei percorsi migratori ha dedicata la sua opera come regista. Ha la delega per occuparsi dei Francesi all’estero e della francofonia.

Per una che ha un padre famoso (Marysol Touraine, ministra degli affari sociali e della sanità, è figlia di Alain e di una donna cilena) le altre sono per lo più figlie di sconosciuti, come l’agricoltore padre di Sylvia Pinel (ministra delegata all’artigianato, comemrcio e turismo), il ferroviere padre di Cécile Duflot (ministra per l’uguaglianza fra i territori e per la casa) o il minatore di origine umbra padre di Aurélie Filippetti (ministra della cultura e della comunicazione) che non è l’unica con un cognome italiano.

Vengono da esperienze politiche di partito, ma anche dai movimenti e dall’associazionismo: Delphine Batho (ministra delegata alla giustizia) esordisce giovanissima nel movimento studentesco che chiede risorse per studiare e poi diventa vicepresidente di SOS Racisme; Georges Pau Langevin (ministra delegata all’educazione nazionale) ha alle spalle un lungo impegno per la difesa delle minoranze e delle popolazioni di Oltremare, come presidente del Movimento contro il razzismo e per l’amicizia fra i popoli. Di partiti alle spalle non c’è solo il PS, ma ci sono i verdi, nelle loro diverse aggregazioni storiche (fino a Europe écologie, di cui Cécile Duflot è stata una delle promotrici), oltre a partiti più piccoli, dai nomi fantasiosi (Christiane Taubira è stata fondatrice e presidente del partito Walwari (ventaglio nel linguaggio degli Indiani d’America).

Sono di sinistra, con alle spalle alcune storie familiari legate all’occupazione nazista e alla resistenza: il padre di Michèle Delaunay (ministra delegata agli affari sociali e alla sanità) è stato presidente del Comitato di Liberazione della Gironda; il nonno di Aurélie Filippetti è stato prigioniero della Gestapo. A lui Aurélie ha dedicato il romanzo {Gli ultimi giorni della classe operaia}.

Molte sono madri (ma le biografie che ho trovato non sono complete). Tutte, anche quelle che hanno finito per fare politica come professione, (per lo più come amministratrici di città) almeno in qualche fase della loro vita hanno svolto lavori “normali” in qualche ambito, per lo più nella pubblica amministrazione, nella scuola e nell’Università, nelle professioni. Hanno quasi tutte titoli di studio elevati, raggiunti in qualche caso alle fine di percorsi di “avanzamento sociale”.
Sembrano incarnare il modello gramsciano: specialista + politica, boccata d’ossigeno per chi vede la classe dirigente (?!)del nostro Paese divisa fra politici incapaci e tecnici presuntuosi.

Dalle biografie non è facile capire se si possono definire femministe e comunque sappiamo che i femminismi francesi non sono riconducibili allo schema di quelli nostrani. Sono certamente donne con una individualità autonoma, alcune si sono occupate in maniera specifica di diritti delle donne o di pari opportunità, altre hanno semplicemente condotto la propria vita e la propria carriera politica facendo leva sulla “meritocrazia repubblicana”.
A tutte in questo momento ho soltanto voglia di augurare buon lavoro.