Cosa spinge un gruppo di donne tra i 24 e i 36 anni a riunirsi per due giorni in una stanza ad ascoltare e parlare di femminismo, scegliendo la facilitazione di una donna più grande che si definisce femminista da prima che la più giovane vedesse la luce?Quella donna più grande sono io, e la domanda me la faccio da oltre 15 anni, ogni volta che sto partendo e poi torno da qualche incontro, seminario di formazione, dibattito.

Ciò che mi colpisce sempre è la scelta non scontata delle più giovani di dedicarsi tempo in questo modo, decidendo che un prezioso week end, solitamente destinato al riposo, alle relazioni familiari o alle attività di sussistenza sarà invece tutto dedicato ad un inconsueto momento di autoformazione, (questo aveva per titolo una frase assai nota, e abusata, di Simone De Beauvoir: femmine si nasce, donne si diventa.

Mi metto in viaggio al venerdì mattina verso una regione ricca del centro Italia, alla volta di un parco incantevole, nel quale da due anni alcune famiglie giovani hanno deciso di scommettere il presente, e di certo un pezzo di futuro, scegliendo di lasciare la città e di vivere in una campagna appenninica dolce, ricca ma non comoda: alcune abitano in poderi riattati, altre in case più spartane, come yurte o caravan.
_ Cucina e servizi sono fuori casa, e se in primavera ed estate le cose sono semplici l’inverno rigido come solo sui monti sa essere non deve rappresentare una vacanza.

Mancano i soldi, e per alcuni nuclei la priorità è stata la proprietà della terra, che si coltiva per autoprodurre il più possibile quello che serve. La casa, quella con i muri solidi e stabili, verrà dopo, forse: per chi ce l’ha adesso si tratta di un affitto, per lo più piccole case da contadini che sono contenti che in questo modo le cascine, costose da mantenere, non vadano in malora.

Quella dove sono ospite sembra uscita da un racconto fiabesco: alla fine di un sentiero non asfaltato che si inoltra tra prati a perdita d’occhio appare all’improvviso; pietre grezze, il grande albero a fare ombra sull’aia, pulcini, galline, gatte e una cagna dal pelo ambrato, erbe aromatiche, il disordine fecondo della campagna, il silenzio dimenticato dalle mie orecchie di cittadina che solo l’assenza di urbanizzazione sa regalare, pieno di rumori naturali che l’udito disimpara se non vivi qui.

Ad accogliermi nella sede della piccola associazione che hanno creato e nella quale svolgono attività di vendita dei prodotti casalinghi (sapone, pane, marmellate, frutti dell’orto) sono in sei, ma avrebbero potuto essere di più: in particolare manca B., la cui assenza è un’ombra maligna che grava sottotraccia.
_ Il suo tanto atteso parto è stato drammatico, e purtroppo ancora non si sa se la bambina sia fuori pericolo. Un pesante presagio di come in seguito il tema del materno sarà uno dei più cruciali, e non per i motivi che mi aspetto, come la precarietà del lavoro o l’incertezza del futuro.

In quattro le donne che mi accolgono sono già madri, e curiosamente hanno tutte figlie femmine: le altre due senza prole sono la più giovane, che è sorella minore di una del gruppo, (vive ancora con i genitori in città) e proprio sua sorella, che sta cercando di restare incinta, per ora senza successo.

Sono tutte donne colte, preparate, con idee chiarissime circa le scelte di vita alternative, minoritarie e difficili che hanno intrapreso: mentre la maggioranza delle loro coetanee si dibatte in città tra disoccupazione, lavori precari, dimissioni in bianco ed eventuale desiderio di maternità quasi irrealizzabile e difficilmente conciliabile con l’economia corrente e i ritmi del mercato neoliberista loro hanno voltato la schiena ad un pezzo significativo di modernità e al suo corollario economico globalizzato, scegliendo la frugalità, l’autoproduzione, la decrescita, un tempo di vita e lavoro nel quale la maternità condivisa tra loro e con i compagni è una priorità data per scontata.

Per quelle che hanno figlie essere diventate madri appare come un punto di forza, orgoglio, linfa vitale e fonte di crescita ed investimento come donne: è al contempo, mi accorgerò poi, il punto di fragilità più forte del loro percorso.

Le guardo; diversissime tra loro anche se molto simili per alcuni versi, data la vicinanza di età, condividono l’essere luminose come solo le venti/trentenni sono nella pelle, nei capelli e nello sguardo, che sento addosso benevolo, curioso, ma anche molto valutativo.

Io qui sono la maggiore, (anagraficamente potrei essere madre per quasi tutte), e questa non è una differenza di poco conto, anche e soprattutto per il ruolo che ricopro in questo cerchio tranquillo, ma carico di attenzione.
Come sempre in questi anni di lavoro formativo politico riscontro che è stato il forte desiderio di una, l’iniziatrice, che ha creato l’opportunità e l’occasione del seminario: quando chiedo a ciascuna perché siano lì, in cerchio, a iniziare due giornate di lavoro e conoscenza sul percorso femminista la risposta comune è che A. le ha convinte, dopo un corso analogo fatto con me due anni fa, giù in città.

Da allora A. ha lavorato per creare l’associazione e raggruppare le altre, trasformando il ‘fare’ donnesco in qualcosa di politicamente visibile, nominabile, non scontato, quindi più difficile e diverso dallo stare, semplicemente, tra donne in quanto giovani madri, coltivatrici, sapienti nell’arte del riuso, riciclo, panificazione e molto, molto altro.

Il desiderio politico di A. e il suo dirsi femminista con convinzione è, oltre alla curiosità e la disponibilità all’ascolto, la mossa potente che ci lega tutte, qui e ora, in questo delicato e teso momento. Questo, dunque, non é più solo un gruppo di amiche: è qualcosa di diverso, è un gruppo politico femminista. Non per tutte, però.
_ Ed è qui che tutto si complica, ed è qui che le relazioni tra loro cambiano: dare una connotazione al fare, al progettare, in modo che l’incontrarsi esca dall’ovvio indistinto senza nome e si dia anche un nome, definendosi un luogo, un progetto, un agire come (anche) femminista, rischia di diventare un ostacolo.

G. lo mette subito in chiaro: sta passando la boa dei trentatrè anni, mi guarda con occhi intelligenti che denotano una potente verve provocatoria.
Viene, con la sorella E. più piccola, da una famiglia non convenzionale, e le femministe che ha incontrato, dice, non le sono piaciute per niente.
Le tratteggia secondo il più trito degli stereotipi: incattivite contro gli uomini, solo rivendicative, smaniose di sostituire al patriarcato un matriarcato inutile, dannoso arcigno e respingente.
_ Faccio mentalmente la connessione con il film Il prescelto, dove si racconta di un’isola di sole donne nella quale ogni anno un uomo viene irretito con l’inganno e poi sacrificato, arso vivo, nel nome di una sanguinaria divinità femminile.

Curioso, interessante ed inquietante come a riproporre il modello della femminista baffuta e odiatrice dei maschi non sia una ragazza priva di strumenti culturali, allevata a Uomini e donne e Grande fratello, ma una donna che si informa, che pratica alternative ai modelli globalizzati nel consumo e nella scelte di vita.
_ Quale è il confine, mi domando, tra un pregiudizio confezionato dai media mainstream e quello ancestrale che sta dentro di noi, (a prescindere dal discredito gettato dall’esterno), sulle nostre simili che sfidano il modello patriarcale?

Nei due giorni, grazie anche ad alcuni contributi video (Il corpo delle donne, Se questa è una donna, il film Angeli d’acciaio, Stereotipi di genere, i materiali di Marea e radiodelledonne.org,e le pagine di Dalla parte delle bambine e I monologhi della vagina, solo per citare alcuni dei testi che abbiamo letto) di pregiudizio e stereotipo sessista si discuterà molto, scoprendo che è un avversario da battere non solo all’esterno, ma anche dentro loro stesse.

Solo in due conoscono già i materiali e i video che propongo, e come di consueto la visione sincopata e riassuntiva della devastante macelleria mediatica causata sul corpo e sulla mente femminile (e maschile) dal ventennio catodico berlusconiano le lascia senza fiato, così come l’epica storia della conquista del voto alle donne negli Stati Uniti le commuove, e il silenzio è teso ed emozionato quando si legge insieme.

Sono attente, educate e interessate al mio proporre un breve escursus storico di ripasso (che annuncio un po’ scolastico, ma breve) del percorso delle conquiste fatte dalla fine della guerra ad oggi: come sempre non è scontato che, pure tra le più preparate, sia davvero nota la storia che ci porta oggi a essere, in questa parte del mondo, capaci di fare scelte di autonomia.

Quando si nominano le leggi elaborate e ottenute in Italia tra tutte è la 194, (e il suo corollario), a scatenare il dibattito e le emozioni.
Come già era successo nell’incontro ad Altradimora del 2011 Tutto su mia madre, centrato sulla scelta di maternità o di non maternità, ecco la convitata di pietra.

Prima G. poi V. raccontano quello che chiamano aborto (non interruzione volontaria di gravidanza) e quanto per entrambe pesi, oggi, il non riuscire ad avere quella maternità (la prima per G. e la seconda per V.) che invece vorrebbero in modo quasi spasmodico.
_ G. racconta che nell’ultimo anno tentare di restare incinta è diventata una ossessione che non solo le occupa la mente pressocchè di continuo, ma che rischia di far franare anche il suo rapporto di coppia.

Poi è il turno di V.: lei confessa che una parte consistente del suo attuale sgomento e senso di inadeguatezza parte dalla sensazione che avere partorito sia stata, fin qui, l’esperienza più potente mai fatta. Afferma, nel silenzio assoluto, che spesso le sembra che il resto delle emozioni della sua vita, come l’amore, l’erotismo, la passione culturale, la politica siano solo uno sbiadito simulacro di quella forza straordinaria che la gravidanza e il parto le hanno fatto provare.

A. racconta la difficoltà avuta, (lei unica femminista convinta del gruppo), con donne femministe più grandi, a far accettare alle maggiori la sua scelta di chiudere con la città e con il lavoro fuori casa, quando anni fa annunciò che partiva per andare a vivere in campagna per allevare in modo diverso la figlia che già portava in grembo.
_ Le critiche furono molto dure, da parte delle donne più mature, alcune delle quali avevano pagato prezzi molto alti sia in famiglia che nel mondo del lavoro per avere scelta la maternità. ”Non vorrai mica rinchiuderti a fare la calza davanti al camino, a fare solo la mamma?” le dicevano alcune. Oggi, dopo due anni A. sta cercando di tornare a lavorare fuori le mura domestiche, e a sua volta è preoccupata delle tensioni alle quali le sue amiche sono sottoposte mentre cercano di diventare madri, una per la prima volta e l’altra per la seconda. Oltre alla forte motivazione personale, al desiderio di maternità che sfiora l’ossessione, proviamo a domandarci perché la carnalità del materno sia così centrale nelle nostre vite femminili: insieme leggiamo un brano tratto da Letteralmente femminista.
_ Sono le parole di Sandra Verda, scrittrice ligure che si sottopose alle pratiche di fecondazione: “Quello che voglio dire alle donne alla ricerca di maternità sia in modo naturale, che con l’adozione, che con la fecondazione assistita, è di sondare sempre e comunque i profondi motivi che le spingono a cercarla: spesso è l’ambiente che ci circonda a influenzarci per replicare l’esempio delle altre donne, le nostre madri in primis, oppure per non sentirsi ‘diverse’, spesso è per gratificare sé stesse o mariti e compagni, spesso è solo perché così fan tutte”.

Siamo, nelle grandi differenze anagrafiche e di storia che ci contraddistinguono, donne libere che stanno facendo percorsi di autodeterminazione: però le emozioni più forti, le lacrime e gli abbracci più stretti ci colgono proprio sull’argomento più antico e mai abbastanza esplorato: il materno.
_ Si decida o meno di essere madri sembra proprio che, trent’anni dopo il primo femminismo radicale, le più giovani sentano ancora il loro corpo riproduttivo come una ambivalente, sfuggente, potente e tirannica zavorra.