Auschwitz spiegato a mia figlia è un testo di Annette Wieviorka con la postfazione di Amos Luzzatto. Pubblicato a Torino dalla Einaudi. La prima edizione è del 1999, la seconda del 2014.  La traduzione del testo è ad opera di Eliana Vicari Fabris.

Non c’è niente di logico, di cartesianamente razionale, nei  fili spinati che intrappolano lo sguardo. Muovono però sommesse  domande  legate ad  una   ri-considerazione, lucida: perché dare  morte ad un proprio simile di cui non si tollera l’esistenza?

 Insapientiti da secoli di nostra razionalità siamo impacciati  nella ricerca di un significato verosimile  davanti al tanto veritiero generato dai racconti sull’Olocausto.

Quell’estate   Mathilde  rimase scioccata vedendo un numero sull’avambraccio sinistro di Berthe, un tatuaggio fatto con  inchiostro azzurrognolo. D’un tratto tutto ciò che aveva visto diventava in qualche modo reale.

Con queste parole Annette Wieviorka ammette,  da  genitore,  la propria difficoltà  nel fare alla  figlia tredicenne  il  racconto  di vicende  troppo dolenti. Prende atto di non riuscire a dire l’essenziale.

Difficile per la lingua pronunciare parole, per la mente capirne il senso e, come ultima operazione concettuale,  riuscire a scriverle sulla carta.

Essere  diventati  un numero , inciso per sempre sulla pelle, è stato, parafrasando  Amoz Oz,  come  entrare ed uscire continuamente da una sorta di Chernobyl. Da storica Annette Wieviorka aspira ad una tessitura dell’incomprensibile che possa narrarsi.  Da madre teme che non ci siano parole per quel   mondo che  auspica  animato ancora da vita,  ma riconosce calpestato da troppa morte.

Il bisogno di dare sostanza alle sue posizioni concettuali s’ incontra nel desiderio di definire ruoli e responsabilità. Voler costruire un nesso   fra il  fatto e  l’intenzione   – che ne è stata il motore –   mi domando se  non sia  stato anche  modo  sottile e raffinato  per tollerare un’inquietudine tanto vaga quanto potente, tentando, in aggiunta, di rimettere ordine in  emozioni già troppo invasive.

L’operazione del capire, per poter poi comprendere, diventa cesello e  ricamo: cerca di dare fisionomia più definita a quell’intreccio di fattori storici, sociologici, economici, politici e psicologici attraverso i quali ancora ci si presenta l’Olocausto.

Se l’elaborazione di quanto ci tormenta dall’interno non può che renderci più  porosi, dunque maggiormente sensibili, è quella stessa riflessione a  consentire anche  il  percorso inverso, un contatto con l’umano di altri  dopo averlo visto trasformarsi , in altri, inumano.

L’onesto e tenace  impegno a definire  un prima  ed un dopo  nella storia dell’Olocausto  sollecita spiegazioni  tanto logiche quanto  lucidamente argomentate. Approfondite  considerazioni sulle cause delle  deportazioni, delle retate e dei campi di  concentramento lasciano però un po’ sullo sfondo  quel dirsi  dell’Olocausto,  che è  volto dell’ insopportabile depersonalizzazione di un essere  umano.

Bene lo disegna Primo Levi quando  accenna ad  un noi ,che vive al sicuro, nel tepore delle case,  trovando, la sera, cibo caldo ed amici , ed un loro, nel fango, nell’arsura gelida di un pericolo battente, in lotta per un tozzo di pane, davanti alla  propria morte sentenziata in un cenno o in  uno sguardo.

Annette  Wieviorka,   come il marito, padre di Mathilde e nonno di Sophie, Eve, Elsa e Nadia, alle quali il libro è dedicato, ha ereditato il nome di un familiare morto ad Auschwitz.

Il fare domande   su quanto questa eredità di morte abbia pesato  – e ancora condizioni l’autrice del libro –  riesprime, in qualche modo,  un’inconsapevole bisogno di riparazione. Il desiderio di contrastare il sentimento dell’inconcepibile  scandisce  l’inconfessata   ( ma  neanche tanto inconsapevole ) necessità di  essere  risarcita. Come il  marito, ha subito   indirettamente questa vicenda:  nel tentativo di dominarla  entrambi  le  hanno  consacrato una parte del loro lavoro.

Accanto alla voce della figlia   Mathilde, dunque,  trova un sommesso accordo anche la voce della madre Annette ,  che non riesce a lenire   propri dolorosi interrogativi.

Perchè è mancata una qualche forma di lotta, perché non c’è stata ribellione, perché gli ebrei si sono lasciati prendere e non hanno  opposto resistenza,  incamminandosi invece come pecore al macello ?

Non sapevano quanto era stato deciso per loro, non sapevano quale ingranaggio si fosse messo in moto, né quale potesse essere l’esito finale.

Non potevano dubitare o avanzare supposizioni: la mostruosità di quelle ipotesi sarebbe stata incredibile,  li avrebbe fatti inorridire.

Giorno dopo giorno,  senza informazioni, senza giornali e senza radio, in balia delle voci più contraddittorie, gli ebrei dovevano immaginare l’alba di un mattino  come tutti gli altri.

E gli altri intorno a loro?

Chi tace davanti ad un omicidio ne diventa complice, e chi non condanna approva. Ma forma di eroismo è quella di  donne e uomini  che li hanno aiutati a fuggire, a salvarsi, o anche solo hanno loro offerto un rifugio.

Donne e uomini , semplicemente, capaci di compiere il loro dovere  di esseri umani in  tempi inumani.

Il  mondo ha cominciato a prendere atto di una guerra doppia  quando le truppe alleate hanno visto  degli uomini   sopravvissuti in scheletri con occhi stravolti.

I tuoi bisononni hanno la tomba scavata nel cielo,  rammenta, con dolore,  Annette alla figlia.

L’Olocausto è l’avvenimento più europeo del Novecento, storia ancora viva, visto che alcuni sopravvissuti, purtroppo sempre meno, attendono che la loro voce si faccia remota. Storia, appunto.

Auschwitz è stato il luogo dove più numerosi sono stati i morti,  ma anche dove   il numero dei sopravvissuti è stato maggiore.

Racconti che facciano leva solo su emozioni non sono però destinati ad avere  effetto duraturo.

Continuo a credere nella ragione e nelle risorse dell’intelligenza , all’intelligere che è intus   legere.

Nonostante l’abbondanza di letteratura specialistica  sull’argomento,  ci sono fenomeni nella storia dell’uomo e della donna che lasciano ampi spazi di incomprensione. Diventa sempre più complicato farsi bastare una concettualizzazione   teorica   pur certa ed anche condivisibile. Chiedersi, ancora, perché tante energie siano state spese  unicamente per annientare quegli esseri umani  potrebbe essere la domanda che ci  faranno domani i nostri nipoti.

Alla quale, forse,  non siamo  in grado di saper dare  compiutamente  la risposta.