Articolo di Giuseppe Patella da Alfabeta+più

Andres Serrano, Locked brains

Ancora oggi, a stagione Abject Art o Post-Human finita (forse), non è difficile imbattersi in mostre in cui umori, escrementi, sangue, urina, sperma, vomito, catarro, saliva, ulcerazioni, putrefazioni, sono i materiali corporei principali di cui sono fatte le opere, in cui in video, installazioni, foto o performance si mostrano corpi direttamente come feriti, smembrati, squarciati, trafitti, imbrattati, degradati, umiliati, provocando spesso fastidio, avversione o ribrezzo e suscitando continui interrogativi e perplessità. Di fronte a queste manifestazioni più forti e trasgressive dell’arte degli ultimi decenni, ma di fronte anche a comportamenti pubblici e privati sempre più diffusi di illegalità, malcostume, corruzione e menzogna, non c’è forse categoria concettuale più adeguata e potente per aiutarci a comprendere questi fenomeni che quella di disgusto. Sicché disgusto, repulsione, orrore, sono diventate le espressioni più utilizzate, ma anche le più opportune, per descrivere molte situazioni della vita e dell’arte contemporanea.

Ma cos’è il disgusto? Ce lo dice un bel libro dello studioso tedesco Winfried Mennighaus, Disgusto. Teoria e storia di una sensazione forte uscito lo scorso anno da Mimesis, che ricostruisce una sorta di contro-storia dell’estetica moderna che, in contrapposizione alla linea dominante di un’estetica del bello e del piacevole centrata sul distacco e sulla distanza, si basa sul progressivo sviluppo della nozione forte di disgusto come esperienza più realistica dei sensi che richiedono invece prossimità e vicinanza, rintracciandone il percorso in autori come Mendelssohn, Winckelmann, Lessing, Herder, Kant, Rosenkranz, Nietzsche, Freud, Bataille, Sartre, Elias, Douglas, Kristeva. Il presupposto della nozione di disgusto, come riconosce lo stesso Menninghaus, va però ricercato in un dimenticato testo del 1929 di un oscuro filosofo ungherese che risponde al nome di Aurel Kolnai. Finalmente tradotto in italiano per le edizioni Marinotti di Milano, a cura di Marco Tedeschini, Der Ekel (Il disgusto) rappresenta infatti la prima riflessione organica su un tema complesso e variegato che soprattutto negli ultimi decenni è diventato di grande attualità.

In questo saggio il giovane filosofo ungherese, nato a Budapest nel 1900, formatosi a Vienna, vissuto e poi morto a Londra nel 1973, con una formazione psicanalitica alle spalle e una perfetta padronanza del metodo fenomenologico husserliano, riesce a indagare filosoficamente in maniera limpida e disinvolta l’esperienza del disgusto, mostrandone la natura, gli oggetti, le regole di funzionamento, il senso e l’intenzione, e a fare così chiarezza su un fenomeno oscuro e completamente inesplorato.

Tenendo conto che la letteratura sull’argomento ai primi del Novecento era praticamente inesistente, il merito complessivo di questo studio di Kolnai sta infatti nel mettere in evidenza una problematica filosofica centrale che non poteva più rimanere inesplorata e che dopo di lui verrà ripresa e ampliata da quanti – da Bataille a Sartre, dalla Kristeva alla Krauss – saranno interessati a mostrarne la pregnanza teorica e la capacità di cogliere l’essenza di molti fenomeni insoliti e perturbanti della nostra stessa contemporaneità.

Anzitutto il disgusto viene considerato come una istintiva «reazione di difesa», anche se ciò che è disgustoso non sempre si dimostra pericoloso. Un verme o una lumaca possono sembrare repellenti, ma non sono affatto pericolosi; mentre oggetti o fenomeni effettivamente pericolosi (ad esempio una valanga o un terremoto) non sono certo disgustosi. Nella sua forma socio-morale, poi, il disgusto si riferisce a ogni forma di eccesso, manifestandosi anche come disprezzo e indignazione, riferendosi alla mancanza di integrità, alla viltà, al tradimento, alla menzogna, alla corruzione.

Kolnai distingue così il disgusto da altre comuni reazioni di difesa, dalle cosiddette tonalità di rifiuto come il dispiacere, l’odio, la sofferenza, l’orrore, e rileva come esso sia profondamente radicato nel corpo, legato alle dimensioni della sensibilità, a tutti i cinque sensi (anche se un po’ meno all’udito). Vi è però una preliminare distinzione fondamentale da fare parlando di disgusto: esistono due specie di oggetti disgustanti – scrive Kolnai – quelli che lo sono per natura e quelli che lo diventano solo in determinate circostanze. Come a dire che, da una parte, la condizione di disgusto, di orrore, è costitutiva dell’esistenza umana – di qui l’analogia con il sentimento dell’angoscia descritto da Heidegger in Essere e tempo nel 1927, cui Kolnai in qualche modo guarda pur distanziandosene – e, dall’altra, vi è un disgusto relativo, contingente, legato a determinati oggetti e occasioni. Benché condivida con l’angoscia alcuni tratti in comune, il disgusto ha tuttavia le sue peculiarità: l’angoscia assale la persona in maniera incomparabilmente maggiore rispetto al disgusto, il suo rapporto con la condizione umana è inoltre un «autentico rapporto esistenziale», mentre nel disgusto questo rapporto si applica «quasi per caso» a un singolo «frammento» dell’esistenza, è legato a oggetti determinati e a occasioni particolari. Sicché, se l’angoscia è tutta centrata sul soggetto, il disgusto è “intenzionale”, si potrebbe dire con il linguaggio della fenomenologia, cioè orientato all’esterno, verso l’oggetto. Esso è direttamente provocato dall’esterno e provocante, attrae e allo stesso tempo respinge. Si tratta di un sentimento profondamente ambivalente, abitato da forze contrapposte anche se non nettamente separabili l’una dall’altra, caratterizzato dalla contiguità, dalla prossimità, dal contatto con l’oggetto esterno, dalla sua capacità di penetrare e contaminare.

Il disgusto, sostiene inoltre Kolnai – ed è questo a nostro avviso uno dei punti decisivi del discorso – non è mai legato all’inorganico, all’inanimato, il materiale disgustoso è sempre biologico, anche quello provocato da “oggetti” morali nasconde una profonda somiglianza con il risveglio causato da materiali organici, mostra sempre una particolare combinazione di vita e di morte. Infatti, profondamente legato al corpo, il disgusto consiste propriamente in un surplus di vita, “un più-di-vita” abitato però dalla non-vita, dalla morte, scrive esplicitamente Kolnai, in un eccesso di vitalità organica, una “vitalità abortiva” che si annida e si propaga oltre ogni limite (simile in questo all’abiezione, come ne parlerà Julia Kristeva nel suo magistrale Poteri dell’orrore. Saggio sull’abiezione del 1980). Tutto ciò che è fisicamente disgustoso, osserva Kolnai, striscia infatti come i rettili, secerne, si insinua, si estende in ogni dove. In questo senso il disgusto non è che vita esagerata, ridondante e recalcitrante ad ogni regola e ad ogni forma, vita cieca, abnorme, aberrante, vita disperata, vita però corrotta, quindi vita impregnata di morte che lotta contro ogni determinazione formale, che contamina e confonde tutto con tutto.

In questo richiamo alla morte non c’è però alcun compiacimento lugubre o decadente. Il disgustoso, scrive con molta efficacia Kolnai, «non tiene in mano alcuna clessidra, ma ci mette di fronte agli occhi uno specchio deformante; Non però il teschio con la sua arida eternità, ma proprio ciò che mai in esso troveremo: la sua grondante marcescenza» (p. 95). D’altra parte, disgustante non è la vita presa in sé, ma la sua pretesa di dilatarsi, di diffondersi in ogni direzione invadendo tutto e trasformando tutto in una massa informe e putrescente.

Rimane comunque il fatto che il disgusto è un sentimento sfuggente, profondamente ambivalente, come dicevamo, che respinge ed attrae, ripugna e seduce allo stesso tempo. È anche per questo che secondo Kolnai esso non può essere ricondotto esclusivamente a categorie di tipo estetico, ma finisce anche sempre per coinvolgere forme della vita etica, sollevando persino la necessità di quella che egli chiama «un’etica del disgusto».

La sua vera ambiguità – propria del resto della stessa posizione di Kolnai – è implicita però nel fatto che il disgusto presuppone un movimento finalizzato, da un lato, alla liberazione dall’oggetto nauseante, al superamento di una condizione di sozzura e di degrado che invade il nostro spazio, quindi alla riconquista di una situazione di presunta purezza o verginità iniziale e, dall’altro, al riconoscimento e alla effettiva consapevolezza che quella dimensione abietta, ignobile, materiale costituisce la nostra reale condizione esistenziale, quella che ci appartiene più propriamente. E quella che ancora oggi l’arte e la vita non smettono mai di mostrarci.

 

Aurel Kolnai  -Il disgusto-  Marinotti Edizioni, Milano, 2017, pp. 132, euro 15.00

Winfried Mennighaus  -Disgusto. Teoria e storia di una sensazione forte-   Mimesis, Milano, 2016, pp. 542, euro 35.00