Una democrazia soffocata
La democrazia soffocata cui allude il titolo è quella sindacale e il concetto non si riferisce tanto alla democrazia dei e nei sindacati quanto dei lavoratori che, secondo la nostra Costituzione, sono liberi di darsi l’organizzazione sindacale che meglio credono e di competere su un piano di parità per la rappresentanza dei loro interessi.Al contrario, il protocollo d’intesa del 31 maggio 2013 crea {{una nicchia di privilegio a sostegno insormontabile dell’esistente,}} tanto che è stato anche paragonato al “porcellum” elettorale. In realtà, mostra, secondo me, aspetti persino deteriori. Mi limiterò a esaminarne alcuni che considero particolarmente rilevanti.
L’intento dichiarato in premessa del protocollo è quello di dare “piena applicazione all’accordo del 28 giugno 2011 in materia di rappresentanza e rappresentatività…delle organizzazioni sindacali…” La cui “misurazione”, vedremo, è destinata a incidere sulla capacità contrattuale, aziendale e nazionale.
E’ bene, allora, menzionare quale sia {{lo stato dell’arte}} a questo proposito, a partire almeno dalla normativa più vicina nel tempo: il più volte criticato art. 8 della L. 148/2011 (legge Sacconi) secondo il quale la materia relativa all’organizzazione del lavoro e alla produzione viene regolata da accordi di livello aziendale o territoriale, capaci di derogare sia ai contratti nazionali sia alle stesse leggi dello Stato. Per di più, tali accordi sono destinati ad avere valore vincolante per tutti i lavoratori interessati, anche se non aderenti alle organizzazioni stipulanti.
Le materie che possono essere regolate coprono tutta l’area del rapporto di lavoro, dalle modalità di assunzione alle tipologie contrattuali, alla trasformazione del contratto e alla sua estinzione, anche in deroga alle disposizioni dell’art. 18 Statuto dei Lavoratori (segno premonitore di manomissioni poi avvenute).
Una legge che, come si vede, opera{{ il sovvertimento dell’ordine gerarchico delle fonti del diritto}} secondo cui la legge dello Stato prevale rispetto a qualsiasi accordo fra parti privati (tali sono le organizzazioni dei lavoratori e dei datori). Un sovvertimento che vale quale abdicazione a una parte importante della potestà legislativa su materie cui spesso ineriscono valori costituzionali. Aleggia sulla previsione un forte sospetto d’incostituzionalità non solo perché l’art. 39 della Costituzione prevede la possibilità di produrre effetti giuridici vincolanti erga omnes solo per i contratti stipulati da sindacati registrati, previa verifica di democraticità del loro ordinamento interno, requisito (la registrazione) ad oggi incompiuto, ma anche perché l’impianto della norma contraddice, trattando la materia come puro scambio fra oggetti (forza lavoro contro denaro), la nozione che innerva la nostra Costituzione. Infatti, la dignità del lavoro implica in quel rapporto l’esistenza di valori extra patrimoniali, beni della persona che vanno tutelati, pena il deterioramento dello status di cittadino per chi è nelle condizioni di vendere la propria forza lavoro.
Consideriamo ora l’accordo interconfederale del 28 giugno, sottoscritto definitivamente il 21 settembre 2011, che si propone di estendere a tutti, iscritti e non, l’efficacia della contrattazione aziendale, noncurante del fatto che la contrattazione nazionale sia sprovvista di tale efficacia a causa della inattuazione dell’art. 39 Cost. Una previsione che rende il contratto nazionale flessibile in favore di esigenze aziendali ispiratrici della contrattazione di secondo livello, ove massimo è lo squilibrio nei rapporti di forza fra le parti contrapposte.
Una linea di complessiva svalorizzazione del bene costituzionale lavoro ad ampio raggio, rispetto alla quale risulta del tutto parziale, quindi insoddisfacente, l’analisi secondo cui il protocollo del 31 maggio sarebbe solo “un accordo di parti” che “non vincola nessun altro soggetto se non i sottoscrittori”. Il contesto contrattuale e normativo suggerisce l’esatto contrario.
Entrando nel merito, il complesso delle clausole chiarisce ulteriormente il concetto.
La rappresentatività sindacale che consente di essere agente contrattuale può riferirsi solo a CGIL CISL UIL, sindacati che possono usufruire di {{“deleghe certificate” }} per le trattenute ad opera dei datori di lavoro, essendo contraenti di contratti collettivi nazionali in epoca precedente al 1995, data del referendum abrogativo della norma dello Statuto dei Lavoratori che costituiva la premessa per le “certificazioni” richieste dall’accordo in esame.
Questo essendo uno dei due criteri che valgono, congiunti, a determinare le rappresentatività, quindi la capacità contrattuale, basterebbe da solo a cristallizzare l’esistente e inibire qualsiasi possibilità di cambiamento.
Ma anche il secondo criterio, per sé considerato, cioè {{il dato elettorale nelle elezioni delle Rappresentanze Sindacali Unitarie (RSU) in azienda,}} non offre nulla di più. La possibilità di indire elezioni per scegliere i propri rappresentanti nei luoghi di lavoro in cui manchino, è data solo se voluta congiuntamente dai sindacati confederali firmatari del protocollo, con evidente serio ostacolo per tutti i lavoratori, associati e non in altri raggruppamenti.
Cade così l’ipotesi di un patto che coinvolge i soli firmatari: come in quelli precedenti {{la difesa dell’esistente insita in questo accordo mette la mordacchia a tutti,}} inibisce la democrazia sindacale, cioè la possibilità di organizzarsi sindacalmente secondo regole di partecipazione democratica.
Tale possibilità era data, sia pure in modo zoppicante, attraverso previsioni premiali dei sindacati confederali, dal protocollo del 1993 che prevedeva il potere di qualunque associazione che raccogliesse le firme del 5% dei lavoratori di dare impulso alla procedura elettorale secondo le regole stabilite nell’accordo stesso. Possibilità cancellata dal 31 maggio scorso poiché il protocollo prevede che il diritto di scelta dei propri rappresentanti sia in capo non ai lavoratori ma in via esclusiva a CGIL CISL UIL (di qui il parallelo con il “porcellum”). Tanto è vero che nella elezione è previsto che valgano “…esclusivamente i voti assoluti espressi per ogni Organizzazione Sindacale aderente alle Confederazioni firmatarie… “. Inoltre “il cambiamento di appartenenza sindacale da parte di un componente la RSU ne determina la decadenza dalla carica e la sostituzione con il primo dei non eletti della lista di originaria appartenenza”: nessuna possibilità per i lavoratori eletti di agire in dissenso dalla linea dei confederali.
Altra perla è la previsione dell’impegno “ a non promuovere iniziative di contrasto agli accordi” e la conseguente possibilità di sanzioni anche ai lavoratori non iscritti ai sindacati contraenti, secondo analitiche previsioni di futuri contratti di categoria: si vogliono così inibire i conflitti di base nei luoghi di lavoro e, possibilmente, anche le iniziative giudiziarie a tutela dei diritti conculcati da iniziative unilaterali dei datori di lavoro. Una macroscopica violazione delle libertà costituzionali.
Per completare, provvisoriamente, il quadro va detto che {{non è previsto alcun referendum dei lavoratori}} né sulle piattaforme rivendicative né sulle ipotesi di accordo siglate con le controparti imprenditoriali.
Che cosa ci si poteva sensatamente attendere da un accordo che interviene in una situazione disastrata del mercato del lavoro, in cui il gender gap costituisce per l’Italia un ulteriore primato negativo a livello europeo?
Dal mio punto di vista, qualcosa di completamente diverso su tutte le essenziali tematiche trattate: {{rappresentanza, capacità contrattuale, validazione degli accordi, azioni di lotta per i diritti violati}}; e anche su quella non trattata per nulla: misure di {{contenimento del gender gap}}, che non sono misure aggiuntive a se stanti, ma dipendono dalla modificazione radicale dell’impianto patriarcale ancora vigente rispetto all’annosa questione del lavoro di cura e per il mercato.
Sulla rappresentanza traspare “{{l’antica paura del suffragio universale}}” tipica dei periodi di crisi (espressione calzante di{{ B. Spinelli}} la Repubblica 12.6.2013), mentre, tutto al contrario, occorreva farsi carico di proposte di modifica legislativa in grado di correggere la deriva neoliberista in materia di diritti individuali e collettivi relativi ai rapporti di lavoro, quindi individuare misure potenzialmente in grado di indicare una via per l’eliminazione delle storture presenti nell’art. 8 L. 48/2011 e nell’accordo interconfederale del giugno 2011, misure in grado, soprattutto, di sventare un’autoconservazione oligarchica garantendo la rappresentanza più ampia di classe e di sesso, così ponendo le basi per mettere un riparo a molteplici situazioni discriminatorie tuttora presenti nel mercato del lavoro, scosso dall’incessante infuriare della crisi.
In particolare {{sulla rappresentanza}}, qualcuno auspica l’avvento di una legge e fa riferimento a una proposta d’iniziativa popolare della FIOM. Poco credibile per almeno due ordini di motivi se non si opera una rottura drastica extra ordinem: il recente protocollo tenderà inevitabilmente a {{conformare di sé la legge futura}}, come esperienze precedenti insegnano. Inoltre la stessa proposta della FIOM, pure assai migliore dei testi attuali, non si può considerare del tutto appagante. Per ragioni di spazio, ma non solo, non intendo soffermarmi sul merito di quella proposta poiché preferisco introdurre osservazioni ed emendamenti in positivo facendo riferimento alle proposte di legge trattate in Commissione alla Camera dei Deputati nel lontano 1998, allorché si tentò vanamente, frenati anche da resistenze sindacali, di elaborare un Testo Unico sulla rappresentanza. Un testo che coinvolgeva tutte le questioni trattate dall’odierno Protocollo e altre ancora.
L’associazione di cui ero presidente, Osservatorio sul Lavoro delle Donne di Milano, contribuì alla discussione sul tema inviando proposte ed emendamenti discussi ampiamente con sindacaliste/i presso la Camera del Lavoro di Milano, di Sesto San Giovanni, la CGIL Nazionale, poi con il Presidente della Commissione della Camera.
La logica di quella proposta era incentrata {{sull’autonomia e l’autogoverno dei soggetti diversamente sessuati}} e poneva regole in grado di registrare questa realtà, in grado, cioè di contrastare la logica oggettivante del mercato, favorendo un’assunzione di responsabilità individuale e collettiva rispetto a bisogni e progetti collettivamente elaborati e condivisi.
Era previsto {{un meccanismo elettorale promozionale per le donne}}, completo di clausola di chiusura antidiscriminatoria (nullità delle liste monosessuale); prevista la facoltà di presentare alle elezioni delle RSU liste elettorali di base, sostenute da una percentuale adeguata di sottoscrittrici e sottoscrittori, contro ogni monopolio del sindacalismo confederale; previsto il diritto di informazione in capo alle RSU elette ispirato alla proposta di V Direttiva comunitaria del 1983 su previsioni produttive e occupazionali, decentramento produttivo, cessione di rami aziendali e quant’altro. Inoltre era prevista la possibilità delle RSU di elaborare piattaforme contrattuali da sottoporre a referendum e la verifica, sempre attraverso referendum, di ipotesi di accordi e contratti collettivi. Conseguente la libertà di sciopero e di iniziative di lotta sociale e giudiziaria.
In un periodo di cancellazione per legge e per accordo del principio costituzionale del {favor lavoratoris}, un periodo in cui si nega, ma si pratica su larga scala la precarietà lavorativa ed esistenziale della maggioranza degli esseri umani, sembra giunto il tempo di prendere sul serio una discussione ampia e coinvolgente su {{regole capaci di garantire “il diritto di avere diritti”.}} Trovando poi il modo di implementarle.
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