Riflessioni su soggetto, parola e desiderio a partire dal discorso pubblico di Jodie Foster in occasione della consegna dei Golden Globes.Lo scorso 13 gennaio in occasione della consegna di un importante riconoscimento alla carriera, l’attrice americana Jodie Foster ha rivelato ciò che tutti ormai sapevano, ovvero che è lesbica. Giornali e media di tutto il mondo ne hanno parlato. Nonostante il fatto che la sua omosessualità non fosse da tempo un segreto per nessuno, il coming out pubblico ha suscitato una marea di commenti concitati. Perché? Perché si tratta di una donna famosissima, certo. Ma non solo.
Cos’è che più profondamente ha colpito l’opinione pubblica e l’immaginario collettivo?

In un primo momento ciò che ha commosso di questa donna ricca e famosa è che a dispetto dell’occasione ufficialissima, a dispetto dell’immagine pubblica patinata, abbia messo dentro al suo discorso piccoli semi di fragilità di fronte a una platea di attori, produttori, registi, miliardari, uomini e donne che certamente non hanno bisogno di chiedere nulla a nessuno.
La finzione, lo spettacolo però non può alterare davvero la realtà. E la realtà è che seppur ricca e famosa, e da tutti fintamente rispettata per questo, ha dovuto lottare per la propria dignità di donna che ama un’altra donna.

Lottare anche per dirlo. E proprio questo dire (che poi è un dirsi) su cui mi vorrei interrogare. Perché è difficile dire a se stesse prima e agli altri poi il nome di un sentimento vero, qualsiasi esso sia?

Innanzitutto credo che su pochi sentimenti gravi un portato storico, sociale, finanche mitologico, di vergogna e di indicibilità come sul desiderio lesbico.
Sappiamo dal monitoraggio dei giornali che la parola “lesbica” è parola quasi impronunciata. Giri di parole, sottintesi, assimilazione all’omosessualità maschile, l’amore fra donne è uno dei grandi impensati e impensabili di questi tempi.

Eppure, come ci ricordava la filosofa Luce Iragaray[1], il rapporto intimo con il corpo di una donna è la prima relazione con un altro essere che abbiamo tutte e tutti. Dalla gestazione alla nascita e poi all’allattamento, siamo composte e impastate nel e del corpo di un’altra donna.
Il rapporto con la madre è (non potrebbe essere altrimenti credo) qualcosa di estremamente viscerale, pre-razionale, opaco, magmatico, pre-logico. Un’opacità imperscrutabile, che accompagna poi la vita dei sentimenti e degli affetti di ogni persona. Cosa resta, cosa c’è di questa visceralità nel rapporto fra due donne?
E ancora: è possibile che motivo dell’impensabilità, dell’incomodo e al contempo della forza del desiderio lesbico sia proprio l’eccesso di visceralità che porta con sé?

Del discorso di Jodie Foster mi colpisce la carica emotiva che traspare, la necessità, che a me sembra quasi epidermica, di dare un nome e uno status pubblico al proprio orientamento sessuale, eppure allo stesso tempo la difficoltà, l’imbarazzo, l’impossibilità dell’atto del nominare.
Parlare in pubblico dei propri sentimenti e affetti è cosa che la nostra cultura svaluta o stigmatizza. Soprattutto se chi parla è una donna. Soprattutto se si afferma come soggetto desiderante. Carla Lonzi[2] aveva capito che la vera eresia del suo tempo (e del nostro) stava nell’affermare la capacità creativa femminile nel privato come nel politico e l’irriducibilità di questa creatività al desiderio maschile.

Se è vero che è solo attraverso la nominazione pubblica che i vissuti personali si compiono e si realizzano, diventano realtà condivisa, è anche vero che le grandi trasformazioni culturali, sociali e civili di un Paese si hanno solamente quando il personale entra a far parte del discorso pubblico e politico. È accaduto così ad esempio con Rosa Parks e le lotte degli afro-americani e con la rivoluzione femminista.

Articolo 3 ha da sempre scommesso sulla dimensione soggettiva e personale dei suoi collaboratori come elemento chiave, per comprendere a fondo ogni forma di discriminazione e di oppressione. Il coinvolgimento personale nella lotta alle discriminazioni non è quindi considerato elemento che impedisce di avere una visione ‘oggettiva’ della realtà sociale.
Al contrario.
È ciò che permette di entrare in profondità nelle oppressioni politiche e sociali, poiché se ne è più che testimoni. E la presa di parola pubblica non è mai cosa scontata o data una volta per tutte.
Perché come persino succede a persone famose, parlare di quello che ci riguarda non è esercizio linguistico, puro discorso. Torniamo qui a quell’opacità originaria del discorso che ci include in quanto soggetti sessuati. Opacità che nessun’operazione linguistico-discorsiva ed intellettuale potrà mai azzerare senza toglierne forza, spessore, contenuto. Come a dire siamo linguaggio, ma non solo.

Ecco perché sono grata a Jodie Foster. Donne, uomini, ricchi e poveri, abbiamo tutti bisogno di recuperare e rivalorizzare pubblicamente la base sessuata, emotiva e pre-razionale del nostro essere al mondo e nel mondo.

[1] Luce Irigaray, Speculum, l’Altra donna, Feltrinelli, Milano, 1975
[2] Carla Lonzi, Sputiamo su Hegel, Scritti di Rivolta Femminile, Milano, 1978