Le donne migranti molto più degli uomini sono esposte allo smarrimento conseguente alla perdita dei significati di vita collettivi originari: il rischio che istituzioni come i consultori affrontino con un’interpretazione occidentale il problema dell’aiuto psicoterapeutico.Nei grandi centri culturali islamici, nei fine settimana, gruppetti di quattro o cinque donne velate non giovanissime, parlano per ore nelle lingue nazionali nella sala della preghiera. Sono mogli e mamme che in maggioranza non lavorano, svolgendo l’antico ruolo femminile della gestione degli spazi privati. Per comunicare con gli autoctoni devono affidarsi ai mariti o ai figli cresciuti o nati in territorio italiano. Non sono molte le donne che frequentano i corsi di lingua italiana, sia perché sono abbastanza rari, sia perché spesso gli uomini non permettono alle donne di accedervi.

Quindi le donne, molto più degli uomini che lavorano o che comunque sono liberi di frequentare i luoghi pubblici e detengono il potere dei centri di cultura e di preghiera o delle moschee, sono esposte allo {{smarrimento conseguente alla perdita dei significati di vita collettivi originari}}. Gli studi condotti in maggioranza all’estero , riscontrano una frequente associazione di sintomi depressivi e stato confusionale, soprattutto di tipo temporo-spaziale. Lo stress causato dai cambiamenti comporta vuoti di memoria, disturbi dell’attenzione, offuscamento della coscienza, accompagnati dalla sensazione di sentirsi perso fino alla perdita dell’orientamento. Non rari pertanto possono essere anche reazioni aggressive sui familiari o auto-aggressive.

Negli uomini in difficoltà rispetto al progetto migratorio o al processo di inclusione di cittadinanza, le reazioni corrono lungo il filo della cultura patriarcale sostenuta – nel caso dei musulmani – dal collant religioso e diventano esacerbazione del “valore” famiglia inteso come luogo dell’onore maschile. {{Il controllo enfatizzato sui corpi e i comportamenti femminili il cui compito è quello di rendere costantemente visibile l’appartenenza comunitaria e religiosa, può legittimare anche la violenza fisica. }}

{{Renzo Guolo}}, sociologo dei processi culturali all’Università di Padova, ha appena pubblicato un interessante saggio ({Identità e paura: gi immigrati e l’immigrazione}, ed. Forum) nel quale analizza la reazione di paura degli italiani di fronte a una emigrazione che non ha più i connotati della temporalità.

Culture e religioni diverse per gli italiani sono una novità: a differenza degli altri popoli europei che hanno conosciuto le guerre di religione e la necessità di trovare una coabitazione. {{Le regioni del Nord sono ormai segnate da un senso di smarrimento degli antichi confini identitari:}} “Nelle campagne non più tali, urbanizzate ma non ancora permeate dalla cultura urbana, abitudini e costumi paiono improvvisamente stravolti. Anche il microspazio sociale, la piazza o il bar, diventa oggetto di conflitto culturale. (…) Così la macelleria halal, il Kebab che sostituisce la pizza la taglio, donne velate e scantinati trasformati in ‘moschee’, parole mai udite pronunciate ad alata voce, una prossemica diversa, accentuano fortemente il senso di spossessamento.”.

Tutto ciò favorisce , soprattutto nelle zone del Nord, la ricerca di valori religiosi, politici e anche economici , capaci di favorire identità collettive e ruoli condivisi, conseguente forte accentuazione di una sorta di cristianesimo identitario, senza Cristo e senza Chiesa. Da parte degli emigrati, l’assimilazionismo senza assimilazione a causa della spinta a serrare le fila per cercare di illudersi che i confini ci sono ancora, impone lo {ius sanguinis}. Mentre {{la Francia, patria dell’assimilazionismo , ha dato prevalenza allo ius soli}}. Secondo il parere del sociologo ciò induce, soprattutto gli islamici, a far prevalere il ri-tradizionalismo su base neocomunitaria. Fino all’adozione, in alcune comunità del Nord, del diritto sharaitico nel campo del diritto di famiglia , con evidenti conseguenze nefande soprattutto per i bambini e le donne.

Ed è alla luce di questi processi ed evoluzioni che si inserisce {{il disagio psichico delle famiglie di immigrati e, in specifico, quello delle donne}}. Di fronte a queste situazioni sarebbe molto negativo assumere, da parte delle istituzioni come {{i consultori}} dove numerosi si recano gli, le straniere, una interpretazione “occidentale” su come fornire, tra l’altro, l’aiuto psicoterapeutico per le donne fondato sul tradizionale modello che mantiene distinti l’approccio intrapsichico e quello relazionale. Cioè quell’approccio che si basa sulla tesi della “conoscenza di sé”, altrimenti detto come autoriflessione per comprendere le cause del disagio e intraprendere il cambiamento. Si configurerebbe come una riduzione dei problemi manifestati attraverso i sintomi psichici al solo individuo, peggio se alla sola individua; anziché al contesto migratorio e cultural-religioso. Alla fin fine anche questo è un modo per colludere con la politica che non ha saputo, non vuole, leggere il fenomeno migratorio e la globalizzazione con ottiche scientifiche.

immagine da: provinciabologna.it