Pubblichiamo di seguito, pressoché per intero, l’introduzione di Francesca Koch (copresidente dell’Affi – Associazione federativa femminista internazionale) al seminario “La Nato nella geopolitica dell’era globale” (18 maggio – Casa internazionale delle donne di Roma).{Su questo sito torneremo a dar conto di altre voci presenti in questo seminario: un’iniziativa che è stata ritenuta importante da tutte e tutti i partecipanti (un centinaio), non soltanto perché ha messo in campo l’autorevolezza di donne e uomini su questa tematica ma soprattutto perché si propone come avvio di un percorso in cui intrecciare competenze e pratiche politiche diverse, svelando “segreti e bugie” su accordi internazionali e basi militari nel territorio, costruendo conoscenza allargata dei problemi in gioco, per sfuggire alla contrapposizione semplicistica Nato SI/Nato NO.}

“[…] {{Il tema di oggi può sembrare insolito in questa sede}}, ma siamo convinte che i temi della politica internazionale e della geopolitica, così come quelli più evidenti nella nostra vita quotidiana, dei temi ambientali, della biopolitica, del lavoro o della programmazione economica, possano essere letti in modo nuovo, con la concretezza che deriva dall’esperienza delle politiche di pace delle donne, fatte di pragmatismo e di capacità di pensare, segnate dalla volontà di cambiamento, dalla capacità di tenere insieme e di comprendere i tanti livelli della conflittualità e della convivenza.

Tanto più {{nell’era globale è necessario rafforzare l’azione delle donne per un sistema di governabilità democratica ai vari livelli, da quello locale a quello globale}}; occorre agire per contribuire alla definizione di un nuovo multilateralismo, costruire modalità innovative di intervento che tengano in conto il dialogo e l’azione comune tra le reti di donne del Nord e del Sud del mondo; lavorare ad una concezione di politica estera tesa a stabilire dei diritti di fatto e non solo sulla carta.

{{Il diritto internazionale}}, quindi, deve essere segnato dalla differenza di genere, deve uscire dall’astrazione che lo caratterizza (di fronte a cui molte donne – vedi Virginia Woolf in “Le tre ghinee” – dichiaravano la loro estraneità) e incarnarsi nelle politiche concrete, nelle {{azioni pragmatiche di costruzione della pace.}} Lo abbiamo scritto nel testo di invito: noi vogliamo assumerci la responsabilità di pensare queste tematiche, alla luce delle pratiche di molte donne che nei molti luoghi di conflitto ricostruiscono relazioni di pace e concretamente lavorano alla ricomposizione dei conflitti.

Per le donne del nostro paese, {{la presenza nella Resistenza}}, come ormai sa bene la storiografia, {{ha segnato non solo l’emergere di una nuova soggettività politica, ma anche una critica radicale alle modalità dello scontro bellico}}, la possibilità di superare le categorie della guerra militare, della logica amico–nemico, per costruire fin da quegli anni una nuova dimensione della convivenza, una nuova idea della cittadinanza che superasse l’idea del cittadino che in armi difende la patria, per affermare le virtù civili della convivenza, la dignità, il rispetto, la cura per l’altro, il reciproco riconoscimento.

Come scrive {{Levinas:}} “il supremo dovere, quando tutto è permesso, consiste nel sentirsi già responsabili nei confronti di quei valori di pace. Non giungere alla conclusione che, nell’universo in guerra, le virtù guerriere sono le sole sicure, non compiacersi, nella situazione tragica, delle virtù virili della morte e del delitto disperato”

{{La Resistenza delle donne si pone dunque come anticipazione di una cittadinanza da venire}}, come lotta per uscire dalla guerra, attraverso {{la volontà di guardare ai “corpi concreti” anziché al sacrificio per un corpo astratto come la nazione}}.

{{A Trieste}}, le donne che facevano parte dell’Alleanza delle donne Antifasciste (poi AFZ, dal nome slavo, dal 45 dell’Unione delle Donne Antifasciste Italo-Slovene UDAIS che, tra l’altro, svolgeva attività contro i licenziamenti, organizzava manifestazioni e cercava di realizzare incontri, dibattiti, conferenze di pace, anche con oratori stranieri) sono in grado di distinguere tra cittadinanza (triestina) e nazionalità (italiana, slava, turca ecc.) pensavano a un futuro per Trieste deciso su basi democratiche che, per loro, voleva dire l’incorporazione di Trieste nella Jugoslavia. Ma il governo militare alleato ridicolizza queste donne e il loro abbigliamento nero; le partigiane triestine cominciano ad essere accusate di sentimenti filoslavi, di depravazione morale; le stesse vedove di guerra sono viste tutte come potenziali spie. La donna partigiana viene ridicolizzata con l’immagine della “drugarizza, animale di sesso femminile che è il risultato di speciali condizioni di vita e di pratiche contronatura” (“Il Grido dell’Istria”, 1946). Per {{Geoffrey Cox}}, del comando militare alleato (The road for Trieste, London, 1947) {{le partigiane sono defemminilizzate e oggetto di derisione sessuale}}, mentre le ragazze di Mestre che aspettano i liberatori alleati sono luminose, leggiadre e seducenti. Il ruolo politico delle donne della Terra di Nessuno, paragonato a quello delle ragazze di Mestre, aiuta Cox a ridefinire le frontiere politiche (“in capo a pochi giorni le nostre relazioni con le italiane divennero molto più strette che con le slovene”).

Così, mentre lo sforzo di rinegoziare le relazioni di genere nel dopoguerra era spesso travolto dalla classe o dai conflitti etnici, per Cox e molti altri osservatori occidentali {{le relazioni di genere divennero una categoria per marcare il territorio dell’opposizione culturale e politica}}.

Gli storici hanno trascurato questa vicenda di politica attiva femminile; e infatti i passi verso le trasformazioni politiche e sociali delle relazioni tra comunità etniche, di classe o di genere, a Trieste furono semplicisticamente ricondotti alla logica della guerra fredda.

{{Durante questi anni, qui alla Casa delle donne, abbiamo conosciuto la sapienza e la concretezza delle politiche di pace dei molti gruppi di donne con cui siamo in relazione}}: dalle donne algerine democratiche, alla loro coraggiosa lotta contro i fondamentalismi e la violenza (riprova nei giorni del sequestro {{Sgrena}}) alla resistenza non violenta delle donne Sahrawi ({{Aminatou Haidar}}) , alle femministe marocchine (la carovana), alle tunisine; poi la capacità di dialogo delle donne israeliane e palestinesi per tessere appunto nuove relazioni e nuove ipotesi di convivenza; lavoro sulla memoria, in Kossovo, sulle memorie traumatiche della shoah, per restituire protagonismo e dignità di resistenti alle donne e agli uomini deportati nei campi, e del genocidio armeno ({{Janine Altounian}}); l’attività del {{gruppo Memorial di Mosca}}, nato sulle ceneri dell’impero sovietico: tutte pratiche che sanno l’importanza dell’elaborazione della memoria e soprattutto dell’ascolto sociale, così che possano crearsi quadri di riferimento condivisi, quadri sociali della memoria (Halbawchs).

Pensiamo all’azione diffusa delle {{donne in nero,}} nei Balcani, in Afganistan, in Medio Oriente. Abbiamo avuto l’onore di ospitare qui alla Casa esponenti della cultura femminista transnazionale, come {{Shirin Ebadi, Assia Djebar, Malalay Joia, Aminata Traoré, Vandana Shiva}}, ma anche{{ le protagoniste di tanti progetti di ricostruzione e di microcredito, di tessitura di nuove relazioni sociali}}.
La risoluzione dell’ONU 1325 del 2000 riafferma il ruolo importante che le donne svolgono nella prevenzione e nella soluzione dei conflitti e nel consolidamento della pace e anche per questo rivendichiamo il nostro ruolo di soggetti politici nella definizione del diritto internazionale

{{E dunque, la Nato}}. Come abbiamo detto nell’invito, {{vogliamo ragionare, in vista del 60 anniversario della Nato, se e a che cosa serva ormai questa alleanza, dal momento che sono cambiati così profondamente gli equilibri della geopolitica; vogliamo discutere fin da ora i motivi che giustificherebbero un eventuale rinnovo. Vogliamo capire a che servono oggi le basi militari in Italia, e perché, anziché puntare al loro smantellamento, a una rinegoziazione degli accordi ai fini di un generale depotenziamento della presenza militare Nato e Usa, l’Italia acconsente al raddoppio della base di Vicenza.}}
Nel suo libro sull’Europa {{Luciana Castellina}} parla della catena di patti militari difensivi, fino alla Nato, come un colpo inferto all’Onu appena nata; {{Todorov}} rincalza sostenendo che dopo il crollo dell’Unione Sovietica, la politica di difesa comune richiedeva un ripensamento, che non c’è stato. La Nato esiste tuttora, ma non si sa più a cosa serva, e in ogni caso non è diretta dall’Europa. Todorov auspica che l’Europa si accetti come una potenza tranquilla, cioè come una forza militare autonoma, capace di difendersi contro ogni avversario, come di aiutare i propri alleati. Diventando militarmente autonoma l’Europa dovrebbe ritirare dall’alleanza atlantica il proprio materiale e porlo sotto il proprio controllo; una Nato più ristretta rimarrebbe utile come scenario di cooperazione militare tra Ue e Usa. […]

Altri autori avvertono che la barbarie europea (della conquista guerriera e della purificazione etnica e religiosa) non finisce dopo la seconda guerra mondiale ({{Morin}}) e che si deve anteporre alla logica dell’arroccamento locale la responsabilità delle aspirazioni globali ({{Bauman}}).

Il nuovo dato dopo gli attentati dell’11 settembre è che le analisi degli esperti delle relazioni internazionali non riguardano più la necessità di proteggere ma la necessità di proteggersi contro il terrorismo internazionale. Si è entrati, come ha osservato qualcuno, nell’epoca della rivincita delle passioni, caratterizzata dal ritorno in forza del terrore e della potenza.

La prevenzione spetta agli Stati, come scrive {{Jacques Semelin}}, citando un rapporto del 2002, sulla prevenzione dei conflitti, di {{Gareth Evans e Mohamed Sahnoun}}: {{responsabilità di prevenire, di reagire, di ricostruire}}.

I dirigenti americani hanno sviato la {{prevenzione}} in {{prelazione}}, hanno usato il diritto di ingerenza in termini di conquista: è{{ urgente perciò un capovolgimento culturale che restituisca alle parole del diritto la loro verità ed efficacia}}; per cui il diritto di ingerenza (dovere di ingerenza, {{Mario Bettati}}) si trasformi in diritto di assistenza a popolazione in pericolo; la fragilità di ognuno, finalmente riconosciuta, divenga tramite della solidarietà di tutti; si dovrebbe infine poter dichiarare che la tendenza a sacralizzare le istituzioni (dalla famiglia, alla nazione, agli eserciti) serve in realtà a coprire l’assenza dei corpi e dei soggetti dalla politica internazionale.

Se vuole rappresentare e governare le radicali trasformazioni delle società, anche a livello globale, {{la politica deve stabilire un nuovo patto tra donne e uomini, deve avere il coraggio di assumere criticamente le asimmetriche relazioni di potere}}, di aprirsi alla ricchezza delle differenze, interrogare esperienze e saperi finora tenuti ai margini, nonostante siano quelli più comuni a tutti gli esseri umani.