“La nave delle cicale operose” (edizioni Robin) è l’ultimo libro di Anna Santoro, un testo che si autodefinisce “una narrazione”. Narrazione è termine sempre più ricorrente, non solo nella letteratura, dove in fondo sarebbe di casa, ma anche in filosofia, psicologia e pedagogia, e perfino in politica. Il significato, e anche l’etimologia della narrazione, rimandano al{{ “far conoscere” }} attraverso il racconto delle azioni. Non si tratta di cronaca. Inoltre, come diceva Ricoeur, il racconto non è mai eticamente neutro. Si raccontano le azioni dei personaggi, e contemporaneamente i loro fini, le loro intenzioni, le circostanze in cui agiscono, le conseguenze delle loro azioni. Chi narra esprime un giudizio sulle ragioni dei personaggi e {{noi che leggiamo giudichiamo a nostra volta}}, cercando di capire che cosa, e perché, e con quali conseguenze, il personaggio ha fatto ciò che ha fatto. Il racconto di Anna Santoro è una narrazione nel senso pieno del termine, e il giudizio, il prendere posizione dell’autrice, si sente in ogni pagina.

Tutte le azioni raccontate, come i numerosi personaggi, sono legate tra di loro; quando non lo sono direttamente, è il contesto storico politico che le tiene insieme. Un contesto, a sua volta, molto dilatato. Il racconto comincia infatti{{ a Napoli negli anni Trenta del Novecento,}} con l’avvento delle leggi razziali, e si svolge fin quasi ai giorni nostri, attraversando gli espropri forzati dei campagnoli abitanti della collina del Vomero e la vita nelle baracche – dove “la vita di prima era un tempo perduto.” – , il boom economico degli anni Sessanta e l’emancipazione delle donne (il quotidiano in questo racconto ha un grande ruolo: ad un certo punto, una delle protagoniste afferma{{ la propria emancipazione dai tradizionali doveri femminili }} usando con entusiasmo il dado da brodo e la purea in polvere), la politica e i conflitti degli anni Settanta e il riflusso (sbrigativamente chiamato così, dice{{ Anna Santoro}}) degli anni Ottanta, il femminismo e il lavoro intellettuale, il “rinascimento” napoletano dell’era Bassolino e l’11 settembre .

E’ come un diario, collettivo, nel quale chi scrive prende nota di avvenimenti biografici e di eventi storici, di libri e film che hanno segnato la coscienza, e non mancano le spiegazioni: tante le “note a margine” che, però, non sono a margine, ma nel testo.

L’andamento corale della narrazione, {{il continuo rimando tra storia e vita delle persone,}} anzi tra Storia e visione soggettiva della storia, fanno un po’ pensare a “{Cent’anni di solitudine}” di {{Garcia Marquez}}, a “{La Storia}” di {{Elsa Morante}}, al film di {{Ettore Scola }} {“C’eravamo tanto amati”}.

{{Anna Santoro}}, finora, ha spaziato nella poesia, nella narrativa, ma anche nella {{cultura “militante”}}, quella che promuove eventi e percorsi per la diffusione della letteratura: ad esempio, un grande impegno biobibliografico per conservare memoria della scrittura femminile (ed anche questa esperienza è molto presente nell’ultimo romanzo), o le carovane di poesia, o le letture pubbliche, nelle biblioteche ed anche in luoghi meno “deputati”. Con questa narrazione, è come se Anna Santoro si accingesse a fare ordine.

L’espressione “{{fare ordine}}”, non a caso, è nel primo rigo del primo capitolo del libro. E’ Dora che parla: “Per fare ordine tra ricordi, pensieri e fantasie, comincerò a raccontare di me.” Questo ordine da fare, alla fine, nel racconto di Dora, ma anche nel racconto di Anna, è un “ordìto” di eventi sul quale si innesta la “trama” delle storie personali. Insieme, i fili tesi tra il soggettivo e il mondo costituiscono il tessuto del sapere, ed è un sapere femminile. Infatti, come i gruppi di autocoscienza fisicamente rappresentavano, è “circolare”. “Quasi una prefazione” è l’introduzione alla storia e presenta la scena finale del racconto: tutti i personaggi si ritrovano insieme e i loro sguardi, dall’uno all’altra, creano un “un cerchio di rimandi e di attenzione.”

Ma c’è un elemento ancora più importante della circolarità (contrapposta al verticalismo del sapere maschile) che contraddistingue il sapere femminile. Esso è sempre un {poiein}, un fare – e per lei stessa, per{{ Anna Santoro}}, il fare coincide da sempre, ancora prima della crisi della politica, con la cultura e la scrittura.

Quando Rino, uno dei protagonisti, ascolta i discorsi delle donne delle baracche che cominciano a fare politica, a parlare di aborto, ad esempio, rimane ammirato: “Credeva di parlare di cose importanti unicamente con i compagni, di lavoro, di soldi…. Ma quelle donne collegavano le cose, le ragioni della loro vita infame, parlavano di fatti che conoscevano e che volevano cambiare.”

Dora, la prima voce narrante, non racconta solo di sé. Anzi, non è la sola Dora che racconta.{{ Ognuno dei personaggi racconta un pezzo di storia}}, ed è come se lo facesse sempre in prima persona. Infatti, ci sono tanti “e intanto rifletteva…”: sono passaggi tra il piano oggettivo e il mondo interiore dei personaggi. Il libro è pieno di queste “porte” che ci permettono di identificarci con ognuno dei personaggi (in fondo, è la stessa Anna che si identifica con ognuno di loro). E la scrittura che Anna usa assume, di volta in volta, l’andamento della poesia, quello della musica, quello del flusso di coscienza. Quando quest’ultima cosa avviene, le normali regole della grammatica e dell’ortografia saltano, spariscono le virgole, oppure le frasi si concludono con un “ma.”, proprio come avviene quando si pensa tra sé e sé, o quando si sogna.

Ci sono {{molti filoni nella narrazione delle cicale operose}}: la storia e il carattere di Napoli, una città “all’avanguardia, esemplare di un’inclinazione generale all’autodistruttività”; la relazione tra le donne protagoniste, una relazione sia matrilineare che orizzontale, amicale; il senso e la funzione del lavoro intellettuale, e, in esso, del lavoro dell’insegnante; le storie d’amore, quelle compiute e quelle che non si compiono mai; il potere che ha molti volti, e tutti detestabili. E la cosa sorprendente è che questo, che per alcuni aspetti sembra un saggio storico politico, abbia {{un esito fantasy}}. “Prendiamo la nave!”, la frase pronunciata dalla più piccola dei protagonisti, Luciuzza, è una esortazione che contemporaneamente è {{una linea di fuga}} (dal dolore) ma anche un ricominciare. Il finale resta aperto, all’interpretazione di chi legge, innanzitutto, ma anche, forse, a quella dell’autrice. E’ come se ci dicesse: c’è ancora tanto da raccontare, da chi e per chi ama la vita, come le cicale operose. E anche chi sembra aver raggiunto “la comprensibilità dell’esistenza”, come Dora ormai vecchia, troverà lo scatto per saltare sulla nave in partenza, per riprendere il viaggio.

{{Anna Santoro}}, {La nave delle cicale operose. Una narrazione}. edizioni Robin 2012, 437 pagine, 18 euro