Riprendiamo da “Kila – il punto di vista delle donne”. Natalità, occupazione femminile, asimmetria di genere nel lavoro di cura. Tre aspetti di unico problema, che mette l’Italia agli ultimi posti in Europa non solo per indici statistici, ma per la minore libertà di scelta delle donne di fronte alla maternità.L’Italia, con il suo indice di fecondità di appena 1,34 di nascite per donna, ha raggiunto un punto in cui l’inversione di tendenza si fa sempre più difficile. {{Le politiche per la famiglia si rivelano non solo insufficienti, ma soprattutto scorrette e controproducenti.}} Perché le donne possano realizzare il loro desiderio di maternità non servono rigidi investimenti sul nucleo familiare, ma un nuovo concetto di aiuto alla maternità, che metta al centro la libertà di scelta della donna.
E’ quanto sostiene il {{Centro Studi FeM (Fertilità e Maternità),}} in un incontro dal titolo {I figli che vorrei}.

“Vi sono {{Paesi dove le donne sono più libere di scegliere}}. Dove gestiscono con cognizione di causa la propria possibilità riproduttiva. Dove entrano ed escono con agilità dal mondo del lavoro e dell’organizzazione familiare. Dove la società investe non solo in asili nido ma anche in cospicue detrazioni fiscali per le baby-sitter, in incremento di lavoro part-time , in orari più elastici, ovvero in una diversificazione di aiuti che lascia la donna “libera di decidere” quale è migliore per lei. È in questi Paesi che nascono più bambini”.
Ad affermarlo Andrea Borini, specialista in ostetricia e ginecologia, tra i massimi esperti di infertilità e procreazione medicalmente assistita nel nostro paese e membro della task force europea sulla preservazione della fertilità {{dell’ESHRE – European Society for Human Reproduction and Embriology}}[www.eshre.com in inglese] nel presentare {{la prima ricerca del neonato}} {{Centro Studi FeM (Fertilità e Maternità),}} di cui è presidente.
La ricerca con cui il centro FeM si propone alla stampa italiana riguarda gli aspetti culturali e sociali della maternità in un dettagliato confronto con le realtà di alcuni Paesi europei rappresentativi.

La Spagna, così simile a noi. La Francia, così vicina, ma così distante, con il suo elevato tasso di fertilità e la sua attenzione alle esigenze delle donne-mamme. La Germania, che sta muovendo i primi passi verso un riconoscimento della maternità come valore sociale e infine la Svezia, paese agli antipodi del nostro per l’alto tasso di natalità e di occupazione femminile, esempio paradigmatico di come si possa lavorare e avere comunque più di un figlio.

E la ricerca del FeM lo conferma: {{dove vi sono meno rigidità sociali la natalità è superiore.}} È il caso della Svezia: più contraccezione (72% delle donne in età fertile), più divorzi (2,4 ogni mille abitanti), più aborti (venti ogni mille donne). Oltre ad un elevato investimento in politiche sociali (3% del Prodotto Interno Lordo). E qui le nascite hanno raggiunto la quota di due figli per donna auspicata dal Consiglio europeo di Lisbona del 2000.

Agli antipodi l’Italia, con il suo 39% di utilizzo di metodi contraccettivi, un ricorso all’aborto che interessa 9,5 donne su mille ed un tasso di divorzi pari allo 0,7%. Ma soprattutto con il suo misero 1,1% del PIL dedicato al sostegno alle politiche per la famiglia. Il risultato è noto: la nascita di 1,34 bambini per donna.

Il nostro Paese, nel panorama internazionale, si distingue per avere {{molti record dal punto di vista socio-demografico}}: oltre alla bassissima fecondità molto al di sotto della crescita zero, la minore partecipazione femminile al mercato del lavoro; poi un sistema di genere fortemente asimmetrico che, con l’entrata delle donne nel mondo del lavoro, ha condotto ad un doppio carico femminile in famiglia e nel mercato del lavoro. Questi tre elementi, fecondità, occupazione femminile e sistema di genere sono fortemente interdipendenti l’uno con l’altro.

Diversamente dagli altri Paesi europei, dove appunto di recente si è assistito a un’inversione di tendenza, in Italia il lavoro delle donne rappresenta ancora un fattore scoraggiante all’avere figli, per la cronica mancanza di servizi per l’infanzia e di strumenti per la conciliazione famiglia-lavoro, e per la scarsa condivisione dei compiti di cura e di assistenza nella famiglia italiana.

Tra le cause immediate della bassa fecondità italiana, quindi, si annovera proprio{{ la difficoltà per le donne di gestire il doppio ruolo di lavoratrice e di madre}}, in una società in cui le strutture pubbliche offrono un supporto scarso e disomogeneo (e solo le reti di aiuti familiari intervengono, quando possibile) e in una famiglia caratterizzata da una forte disparità di genere nella divisioni dei compiti domestici e di cura fra i due partner.

Nella stessa confernza stampa, a Roma il 17 aprile, è stata presentata anche la {{quarta ricerca dell’O.S.I., Osservatorio Sociale sull’Infertilità}} [www.tecnobiosprocreazione.it], con l’obiettivo di promuovere un monitoraggio non solo epidemiologico, ma anche di ordine socio-culturale sulle donne che si sottopongono alla cosiddetta fecondazione artificiale.

In un Paese in cui la maternità è così contrastata, quasi punita, ci sono moltissime coppie che la desiderano e la cercano con caparbietà. Che lottano per avere un “figlio proprio”. {{Coppie davvero “normali” sia cattoliche che laiche}}, a provare che “vi è {{un paradosso italiano}}, una mancanza di percezione dei desideri reali del mondo femminile” commenta Marina Mengarelli, sociologa, presidente O.S.I.

L’indagine è stata effettuata su 123 coppie che si sono recate al centro di procreazione medicalmente assistita privato Tecnobios di Bologna tra il 2005 ed il 2006. Età media, scolarizzazione, tipologia d’impiego, religiosità dichiarata e praticata, qualità della relazione medico-paziente, sono solo alcuni degli aspetti indagati dalla ricerca. “Si ottiene così un profilo socio-culturale inedito delle coppie che effettuano PMA, che i ricercatori hanno messo poi a confronto con quello dei pazienti che si rivolgono ai centri convenzionati di Abano e Udine” spiega Marina Mengarelli.

Otto coppie su dieci si dicono cattoliche e la metà di queste praticanti. Ma a questa dichiarazione, rileva l’Osservatorio, “si accompagnano atteggiamenti relativamente laici. Le coppie che si sono rivolte al centro privato di Bologna – risulta dalla ricerca – chiedono {{una regolamentazione da parte dello Stato rispettosa della libertà individuale}}, quindi prevalentemente tutela in termini di sicurezza e non limitazioni delle scelte procreative individuali per quanto riguarda specificamente le tecniche”.

La ricerca presentata dall’ O.S.I., dal titolo {La fatica di essere normali} , è stata condotta dal Laboratorio di Ricerca sulla Comunicazione avanzata della Facoltà di Sociologia dell’Università Carlo Bo di Urbino, in collaborazione con il centro di fecondazione assistita Tecnobios Procreazione di Bologna.