“C’è una visione, e una versione, del desiderio maschile sul corpo
femminile che lo vuole come una superficie sulla quale proiettare il
proprio desiderio”.

Ieri, a {{Vicenza}} (città nella quale qualche anno fa si discusse molto a
partire dall’episodio della ragazza-vassoio, sul cui corpo svestito fu
allestito un banchetto per un evento commerciale, non una riedizione della
performance surrealista di Meret Oppenheimer dei primi del ‘900), {{queste
parole le ha pronunciate un uomo.}}

{{Sandro Bellassai}}, docente universitario e attivista del gruppo
Maschile-plurale, era insieme a me invitato a dibattere sul {{corpo femminile
tra mercato, realtà e immagine}} su invito del Forum delle associazioni
femminili vicentine, che raccoglie gruppi che vanno dalle attivissime suore
orsoline al gruppo femminista Femminile – plurale.

Dietro a quella versione del desiderio maschile, si è detto, c’è un preciso
modo di intendere {{la (non) relazione con una donna}}, che ha talvolta come
approdo concreto, nell’escalation della violenza scatenata dalla
frustrazione per un rifiuto femminile, il femminicidio.

{{Il femminicida}}, così si chiama il violento che uccide una donna, non vede
dall’altra parte del suo sguardo un essere umano, ma una sua proprietà, un
suo diritto: il desiderio frustrato, il rifiuto, la rottura di consenso da
parte dell’altra cancellano la percezione della donna come di una propria
simile.

E’ lo stesso {{processo di disumanizzazione}} che consente, nella logica del
nemico/inferiore, di poter uccidere in guerra, di massacrare nelle rivolte:
è quello che chi studia le dinamiche belliche ha sentito raccontare, in
tutte le lingue del mondo a tutte le latitudini.

Negarlo significa negare che il rosario che sgrana il numero di 1 donna
ammazzata in Italia ogni 2/3 giorni per mano di un ex fidanzato, amico,
amante, marito, padre, parente configuri una guerra in atto. Una guerra
poco visibile, una guerra a bassa intensità, i cui sintomi, visibilissimi
questi, come le denunce, le richieste di aiuto e protezione rivolte anche
alle forze dell’ordine, vengono, se non ignorati, o comunque fortemente
sottovalutate. Le emergenze sono sempre altre, sempre, quando sono le donne
a indicare le priorità.

La ragazza perseguitata dal fidanzato a Palermo aveva chiesto aiuto, ma era
solo una delle tante ragazze con un ex fidanzato un pò troppo possessivo.

Ora quella ragazza, invece della protezione e dell’ascolto che avrebbe
dovuto avere, perchè il diritto alla protezione e alla sicurezza dovrebbe
essere una priorità in un paese civile, ha {{una sorella da piangere}}.

Dietro alla frase del suo assassino, “mi ha lasciato, ho persola testa”,
c’è {{un ragazzo come tanti, non un mostro nè un pazzo da poco uscito da un
istituto}}. E c’è una terribile, tragica e intollerabile ennesima sconfitta.

{{La sconfitta della protezione }} doverosa e dovuta a chi chiede aiuto,{{ la
sconfitta dell’educazione ai sentimenti e al rispetto.}}

Molti e complessi sono i fattori che concorrono a muovere la mano di un
femminicida, e uno di questi è la non sufficiente messa al bando, da parte
degli adulti e delle agenzie educative (famiglia, scuola, media, opinion
leader) della logica della legittimità da parte maschile del possesso e
della supremazia del proprio bisogno su quello della compagna.

Una ragazzina, durante un dibattito su questi temi, diceva con candore di
essere cresciuta vedendo alla tv, e sui giornali, corpi di giovani donne,
(quindi per traslato anche il suo corpo), perennemente utilizzato per
vendere, e di non avere altro modello di riferimento. Seni, cosce, glutei,
pezzi di carne di donna in mostra per vendere cose.

Si può rispettare una cosa? Che storia ci racconta, e che realtà partorisce
la legittimazione della mercificazione del corpo femminile, laddove
evidentemente autorizza il diritto maschile a pretendere che una donna in
carne e ossa debba sempre dire sì, e mai possa sottrarsi, mai possa
esercitare soggettività, mai si rifiuti?

Senza nulla togliere alla tremenda (ir) responsabilità di quel ragazzo
assassino, non dobbiamo forse domandarci tutti e tutte noi, adulti: cosa ha
(anche) contribuito ad armare la sua mano violenta?