Oggi il compito dei preti in mimetica è finito e il Papa potrebbe dire
ai militari “non avete più bisogno di noi”. Non solo lo Stato italiano
risparmierebbe 15 milioni l’anno ma
ci libereremmo tutti da questa equivoca complicità con i valori di
“gerarchia”, obbedienza, disciplina, militarizzazione indiretta
dell’istituzione religiosa.Tutti sappiamo che, in relazione ai problemi della pace e della
guerra, dopo la seconda guerra mondiale si è registrato quel progresso
giuridico che ha sancito, almeno in linea di principi, la carta dei
diritti umani e i protocolli sui diritti dei popoli.

Carte e principi
che, se non normati nelle legislazioni nazionali, sono affidati alla
coscienza e alla libera volontà dei cittadini. Le democrazie hanno via
via cancellato i codici di guerra e hanno redatto leggi di
regolamentazione del commercio delle armi, anche se il dogma
mercatista comporta che le fabbriche belliche non siano mai in crisi
(anzi prosperino quando le crisi producono miseria), che i paesi
poveri le acquistino prima del pane, che i cittadini disinformati
accettino senza protestare di diventare indirettamente complici.

Tuttavia le armi, come simbolo, hanno perduto ogni onore (non
dimentichiamo che quando l’Italia non era unita né era “patria”
comune, la professione militare era “nobile” e la coscrizione un
vincolo accettato) e gli stessi militari debbono aggiungere alla
parola guerra qualche aggettivo, giustificativo di atti di violenza
che appaiono ancora “necessari” alla sicurezza e alla diffusione della
democrazia. Necessari, ovviamente, perché, quando non si avviano
tempestivamente iniziative di distensione nelle aree di conflitto, non
si riparano i torti remoti, non si fa prevenzione usando la diplomazia
e non i missili, le armi “sparano da sole” e la guerra “esplode”. Sta
bene così? Anche a chi legge il Vangelo?

Il quotidiano della CEI, “Avvenire”, l’8 agosto ha dedicato una pagina
intera agli “eroi per la pace”, in onore dei nostri soldati presenti
(e troppe volte morti) in Afganistan e nelle “missioni di pace” nei
paesi funestati dai conflitti.
_ L’Ordinario militare, il vescovo
castrense mons. Vincenzo Pelvi, ci ha messo del suo sottolineando la
compatibilità dell’essere cristiani e soldati e definendo l’aeroporto
di Ciampino, dove arrivano le bare dei soldati italiani “una scuola di
fede”.

Un buon numero di preti e di laici ha scritto una protesta
appassionata, indicando la necessità di una riflessione in materia a
50 anni dal Concilio Vaticano II e da un Papa che ha definito la
guerra nucleare un alienum a ratione, una “roba da matti”.

Il direttore di Avvenire si è scandalizzato e ha contestato
l’iniziativa, da non ritenersi “non-violenta” (lo scrive con il
trattino !), bensì contraddittoria perché la vittima non può
contemporaneamente diventare “complice delle stragi”.
_ Infatti, la pace
secondo la Pacem in terris sarebbe quella che “garantisce una degna
convivenza nella verità, nella giustizia, nell’amore, nella libertà”;
dunque, come hanno interpretato altri pontefici, le forze armate
rappresentano il “servizio esclusivo di difesa e sicurezza e della
libertà dei popoli” (anche se – dicono sempre i Papi – “purtroppo
talora altri interessi economici e politici fomentati dalle tensioni
internazionali fanno sì che questa tendenza costruttiva trovi ostacoli
e ritardi”). Per questo la Chiesa continuerà con i cappellani ad
offrire il proprio servizio alla formazione delle coscienze…
eccetera, eccetera.

La lettera dei preti dissenzienti contestava in primo luogo la
presenza nell’ambito delle strutture ecclesiastiche dei cappellani
militari. Non mi sembra che dissolva le critiche la citazione di
Benededetto XVI che, evocata la Gaudium et spes (“quelli che prestano
servizio militare” possono essere considerati “come ministri della
sicurezza e della libertà dei popoli… se adempiono rettamente il
loro dovere”), sostiene che “se il Concilio chiama ministri della pace
i militari, quanto più lo saranno i Pastori a cui essi sono affidati!
Pertanto esorto tutti voi a far sì che i cappellani militari siano
autentici esperti e maestri di quanto la Chiesa insegna e pratica in
ordine alla costruzione della pace nel mondo”.

Che Marco Tarquinio, direttore del quotidiano della Cei, aderisca in
quanto buon cristiano, interessa poco. Vorrei riprendere invece le
parole di Benedetto XVI e le sua citazioni dal Concilio.
_ La
celebrazione dei cinquant’anni dell’apertura del Vaticano II constata
il passaggio di mezzo secolo di storia da innterpretare: allora gli
Stati e i governi, nonostante la seconda guerra mondiale, combattevano
la guerra “fredda” (il primo aggettivo correttivo usato storicamente)
e in Italia mantenevano nella Costituzione il “sacro dovere della
difesa” nelle forme della leva obbligatoria.

Negli anni successivi gli
obiettori di coscienza sono stati legittimati, il servizio militare è
diventato professionale e volontario, le missioni nei paesi in
conflitto dovrebbero attendere il sigillo delle N.U. (non per
l’Enduring Freedom in Afganistan).

Da un punto di vista religioso sarebbe istruttivo fare memoria del
comunicato che nel 1965 (post-Concilium) alcuni cappellani militari
della Toscana pubblicarono un documento per definire l’obiezione al
servizio militare “un’espressione di viltà”; seguirono la risposta di
don Milani, l’ammonimento a don Milani da parte del cardinal Florit,
la denuncia di ex-combattenti alla Procura di Firenze, il processo a
cui don Lorenzo morente partecipò con la famosa “Lettera ai giudici”,
l’assoluzione perché il fatto non costituiva reato.

on è possibile ripetere gli errori. Anche se non sarà la nostra epoca
a vedere la scomparsa degli eserciti, nessuno ignora che si arriva
alle guerre partendo da interessi che coinvolgono la responsabilità
degli umani negli inganni degli egoismi e dell’ignoranza che producono
nazionalismi e conflitti.

Proprio in questi mesi sono in incubazione
conflitti destinati a erompere se non controllati e aiutati a
recuperare umanità e c’è bisogno di capire quanto grande sia la
responsabilità di affidare la sicurezza solo agli eserciti. Per una
cattolicità che ha perduto il mordente di quell’amicizia fra
confessioni che credono in un solo Gesù Cristo (che chiamavamo
ecumenismo, oggi termine desueto) sarebbe urgente, tanto per
cominciare, testimoniare il valore della libertà religiosa attivando
con urgenza il dialogo con le diverse espressioni dell’Islam. Le
guerre si prevengono attivando processi distensivi quando c’è ancora
tempo per evitarle: la cooperazione solidale (che è ancora senza
indirizzo strategico) non basta, se non si attivano le diplomazie dei
governi e dei partiti, ma anche della società civile. Le chiese per
prime debbono dimostrare che la diplomazia non è difesa degli
interessi costituiti per altra via, ma ricerca di relazione,
possibilmente amicale: per questo il Vangelo è sicuramente per tutti,
non per molti.

Oggi il compito dei preti in mimetica è finito e il Papa potrebbe dire
ai militari “non avete più bisogno di noi”. Non solo lo Stato italiano
risparmierebbe 15 milioni l’anno e i non-credenti smetterebbero di
lamentarsi per il peso sui contribuenti di finanziamenti impropri, ma
ci libereremmo tutti da questa equivoca complicità con i valori di
“gerarchia”, obbedienza, disciplina, militarizzazione indiretta
dell’istituzione religiosa. Che un vescovo sia equiparato a un
generale (con relativo stipendio e vitalizio) è cosa che sconcerta:
la Pax Christi lo segnala da decenni.

Nonviolenza è recente termine simbolico di alta pregnanza laica, ma
anche (direi soprattutto) religiosa. Si nominano volentieri Buddha,
Socrate, Gandhi, non si cita mai la lotta nonviolenta dello sciopero,
Bonhoeffer, Hillesu; ma l’identificazione più autentica sembra
piuttosto Gesù Cristo. Il Vangelo intero è all’insegna della
nonviolenza: un prete camico usa il termine per definire anche la
castità, suppongo compresa quella di Maria e Giuseppe.

La violenza è, invece, cara a quanti la ritengono caratteristica umana
“per natura”, la “caduta” degli uomini per un “peccato” chiamato
“originale” più perché non si sa che cosa sia che perché stabilito
come origine del male.

Ragionando senza aggiornare i registri
ermeneutici sui valori simbolici e non letterali (ci arrivava perfino
Dante) della Scrittura, si accettano passivamente l’accadimento delle
guerre, la corsa agli armamenti, le carneficine per ragioni
umanitarie. Un embrione rappresenta “la vita” più delle centinaia di
afgani uccisi.

Il pessimismo cupo e inguaribile delle gerarchie
vaticane può contribuire a peggiorare le difficoltà di quanti ancora
sperano in una chiesa visibile attenta all’evolversi della storia
umana e alla ricerca di nuovi “segni dei tempi” positivi, che
incoraggino – soprattutto i più giovani – alla dura fatica di
prevenire i conflitti, da quelli personali e quelli planetari.

Il
Maestro consegnava il pensiero teologico più alto a una donna della
comunità samaritana che non lo aveva accolto; ma l’insegnamento sul
senso della fede per spendere coerentemente la vita lo dà facendosi
testimonianza nella morte, dopo aver redarguito l’apostolo che aveva
preso la spada e dopo essere stato rinnegato da Pietro.
_ La chiesa –
che ha incominciato senza aver capito bene che cosa voleva il Signore
– faccia capire che ci sta pensando più seriamente. Non siamo ai tempi
di un Giulio II con l’armatura e la spada in mano: vorremmo sentire da
Benedetto che la pace non si realizza – anche si ci sono e resteranno
a lungo – con gli eserciti.