Ho visto la cura organizzativa, non semplice da realizzare e non scontata,
da parte dei comitati No Tav, ma alla fine chi non
c’era e guarda la tv, riceve negli occhi solo le scene di violenza, sangue e
fumo, e le parole stanno a zero.Ero in Val Susa, domenica scorsa, con mio figlio sedicenne e suo padre,
attivista ambientalista da tutta la vita.
_ Ho dormito la sera prima nella
casa di una famiglia della zona, così da essere già nei pressi all’indomani
e non fare una levataccia; ho cenato con una coppia di abitanti valsusini
doc, persone cordiali, spiritose, civili e bene informate sullo scempio che
da qui a un ventennio, se andranno avanti i lavori, sconvolgerà la vallata
con un’opera che, fatte le debite proporzioni, è più pericolosa, dispendiosa
e inutile delle Piramidi dell’antico Egitto, che almeno sono lì a dirci
dell’arroganza prometeica del potere ma non sono state una iattura così
feroce per la natura circostante.

Ho visto la cura organizzativa, non semplice da realizzare e non scontata,
da parte dei comitati No Tav, che ha come logo un vecchietto dignitoso e
arrabbiato che si appoggia al suo bastone, una figura che nulla ha da
spartire con l’immaginario della retorica eroica, violenta e sanguinosa di
chi come sedicente strumento di lotta sceglie di armarsi in assetto di
guerra e pianifica programmaticamente lo scontro con la polizia.

Non importa lo scenario, a chi trasloca la guerriglia nelle pratiche di
movimento: si va a cercare di sfasciare la testa al celerino allo stadio
come davanti all’FMI, al G8 in tour per il mondo come in Val Susa, senza
dialogare con chi pacificamente costruisce porta a porta il consenso e non
confonde gli obiettivi della mobilitazione con il proprio protagonismo.

Ho camminato per ore sotto il sole cocente che mi ha bruciato le spalle
stando fianco a fianco con sindaci, amministratrici e amministratori con
fascia tricolore sulle magliette, che hanno aperto l’interminabile fiume
umano impossibile da contare, ma di certo non inferiore alle 60 mila
persone.

Dietro a loro centinaia di carrozzine spinte da padri e madri, spesso muniti
di zainetto con dentro i fratellini e le sorelline più piccole, e per mano o
intorno i più grandi.

Il servizio d’ordine scandiva con chiarezza i ringraziamenti a chi si univa
mano a mano al serpentone di corpi, ma ho sentito più volte affermare anche
con un’ironia ferma e precisa ai figuri neri che più volte hanno cercato di
infiltrarsi alla testa del corteo: “Questo è l’unico corteo autorizzato dai
comitati, ci sono famiglie e bambini, quindi chi non si adegua se ne vada,
gli ‘zii’ con i caschi fuori, qui non vi vogliamo”.

Eppure alla fine chi non
c’era e guarda la tv riceve negli occhi solo le scene di violenza, sangue e
fumo, e le parole stanno a zero.

Un risultato certo e matematico il protagonismo egoista e tracotante che si
veste di nero e si copre il volto ce l’ha sempre: oscurare le ragioni dei
comitati pacifici, offrire alibi alla stampa per non parlare dei contenuti,
togliere aria e spazio a chi lavora nel quotidiano con la forza delle
parole, della documentazione e delle intelligenze individuali e collettive
che costruiscono alternative possibili.

Le popolazioni offese dallo scempio annunciato della Tav hanno avversari
potenti: gli interessi economici governativi, l’ottusità complice di parte
del maggiore partito di opposizione, la minoranza violenta che fa del
turismo bellico la sua sola ragione di esistenza.
_ Di quest’ultimo pericolo i
movimenti devono ragionare e presto: la storia recente dell’Italia insegna
che offrire consenso anche minimo e sottovalutare il fascino della violenza
come pratica di lotta, specialmente presso le giovani generazioni, brucia
le ragioni politiche, cancella pezzi di generazioni, sottrae energie dalla
condivisione del cambiamento.

Vandana Shiva, madre dei movimenti per una
diversa e possibile globalizzazione, ha scritto: {La pace non si creerà dalle
armi e dalla guerra, dalle bombe e dalla barbarie}.

La violenza non si
contiene propagandandola.
_ La violenza è diventata un lusso che la specie
umana non può più permettersi, se vuole sopravvivere.
_ La nonviolenza è
diventata un imperativo per la sopravvivenza.” Ricordarlo e dirlo forte e
chiaro, prendendosi la responsabilità di questa scelta, non è un’optional.