Pubblichiamo l’intervento dell’onorevole Elettra Deiana (deputata Rifondazione comunista) in occasione della discussione alla Camera, il 5 marzo, sulle linee generali del disegno di legge di conversione del decreto-legge 31 gennaio 2007, n. 4, recante proroga della partecipazione italiana a missioni umanitarie e internazionali. “ In apertura di questo mio intervento voglio anche io ricordare che {{in Afghanistan si prepara una campagna di primavera nelle forme guerreggiate di una guerra asimmetrica}}, in cui la forza degli uni, della Nato e del Pentagono per quanto riguarda la parte più orientale del paese, è affidata ai bombardamenti e alla tecnologia più sofisticata, mentre quella degli altri, dei taleban e dei loro supporter, è affidata ai kamikaze suicidi.

Voglio ricordare anche che l’Italia, insieme ad altri paesi della Nato, fra cui la Germania e la Spagna, è sottoposta da altri paesi dell’Alleanza – in primis dagli Stati Uniti e dalla Gran Bretagna, ma anche dal Canada – nonché dal segretario generale dell’Alleanza, Jaap de Hoop Scheffer, ad un ostinato pressing perché riduca o annulli le clausole di restrizione nell’ingaggio e metta i nostri militari a completa disposizione dei comandi Nato.
Chiedo al collega Fontana, che nel suo intervento ha sostenuto che la dignità e la credibilità del nostro paese sul piano internazionale dipendono – o dipenderebbero, non ho capito bene – dalla capacità e dalla disponibilità a dire sempre «sì» ai diktat degli Stati Uniti, cosa abbiano in comune Italia, Germania e Spagna per essere sottoposti a questo pressing. Non credo che la Germania di Angela Merkel subisca i condizionamenti di una sinistra radicale.

Inoltre, {{voglio ricordare che dall’Afghanistan giungono in questi giorni notizie, non solo di un crescendo di rischi di attentati o di veri e propri attentati, anche in zone ritenute fino a ieri più tranquille, come la provincia di Herat, sotto il controllo italiano, ma anche di un coinvolgimento diretto di unità speciali italiane in azioni di contrasto alla guerriglia.}}
Oggi su “El Pais” c’è la notizia che il Governo spagnolo ha deciso l’invio di nuove truppe per timore di uno sfondamento nelle zone ad ovest del paese, dove sono impegnati i nostri militari nel Prt di Herat.

{{Credo che si debba fare la massima chiarezza su tutto ciò, perché il Parlamento ed il paese devono conoscere realmente la posta in gioco e le responsabilità che il Governo dell’Unione si assume di fronte ad una evidentissima escalation delle dinamiche di guerra in Afghanistan.}}
Voglio infine ricordare che nella realtà afghana di oggi le azioni di guerra della Nato – e nella parte orientale del paese le azioni direttamente messe in atto dai militari statunitensi – sono condotte contro le popolazioni civili, i pashtun in particolare, come gli episodi terribili di questi giorni dimostrano. Si tratta di un problema enorme, quello degli effetti collaterali che colpiscono le popolazioni inermi, povere, sottoposte ad una situazione di straordinario disagio.

Come Rifondazione Comunista-Sinistra Europea, abbiamo posto con grande nettezza – e continueremo a farlo – la questione di un disimpegno militare del nostro paese dall’Afghanistan. La ricerca di soluzioni alternative alla gestione bellica della Nato, ricerca che riteniamo indispensabile e doverosa, non può non partire dalla consapevolezza che la permanenza di una situazione di conflitto rende remota, se non impossibile, ogni altra soluzione. La guerra, il conflitto militare come elemento costitutivo e i continui rischi di escalation, come sta accadendo, aggravano e non risolvono i problemi endemici di quel paese. L’accentuazione del carattere militare della missione Isaf, messa sotto il comando della Nato, non risponde certamente alle esigenze delle popolazioni, né rappresenta un efficace strumento di contrasto al terrorismo.
Al contrario, essa aggrava l’adattamento e la dipendenza delle popolazioni locali dai signori della guerra – quei war lord dell’alleanza del nord che sostengono, con molte eccezioni, il Governo Karzai e controllano il territorio, standosene, con il ruolo di eletti, nella Wolesi Jirga – e dai taleban, che stanno riprendendo quota e consensi nella zona pashtun.

{{La guerra aggrava la dipendenza dei contadini dalla coltivazione dell’oppio e concede massima libertà di azione ai narcotrafficanti. Infine, la guerra aggrava i processi di corruzione degli apparati, l’inefficienza delle esilissime istituzioni promosse dall’Isaf, il caos sociale, civile, l’insoddisfazione crescente della popolazione locale.}}

{{Riteniamo che l’impegno del Governo italiano a lavorare nei prossimi mesi per una Conferenza internazionale sull’Afghanistan sia un passo importante}}, per la cui attuazione abbiamo dato e diamo, come gruppo parlamentare, un contributo decisivo: esso è il motivo di fondo della nostra decisione di votare a favore del provvedimento, nonostante il giudizio negativo sulla missione, che permane. Altrettanto importante sarà l’iniziativa del ministro degli esteri D’Alema, che mi sembra si sia impegnato, stando alle dichiarazioni dei giorni scorsi, a sollevare in tutte le sedi internazionali, a cominciare dal Consiglio di sicurezza in ambito Nato, la questione della insostenibilità di questo impegno e della necessità di cercare altre strade.
Si tratta di un lavoro propedeutico per la conferenza di pace assolutamente necessario, perché tale conferenza può nascere soltanto all’interno di una discussione internazionale che affronti con chiarezza e determinazione tutti gli aspetti della vicenda.

{{In ogni caso, la decisione di un impegno italiano per una conferenza internazionale sarebbe importante, qualora venisse sancito dal Parlamento, perché servirebbe a rompere la logica claustrofobia dell’escalation militare a tutti costi, invocata dalla presidenza Bush.}} Inoltre, chiama tutti a misurarsi su un terreno diverso e decisivo per il nostro futuro: le politiche di pace contro le politiche di guerra, in una fase storica, come quella che viviamo, in cui conflitti e focolai di guerra sembrano destinati a moltiplicarsi. Dopo l’impegno per il Libano, che, insieme al ritiro delle truppe italiane dall’Iraq, ha segnato un parziale passo di discontinuità in politica estera, rispetto alla pedissequa osservanza del Governo Berlusconi alle linee guida dell’amministrazione Bush, anche questa nuova iniziativa può e deve concorrere a ridisegnare un profilo dell’Italia ispirato al primato della diplomazia, del ruolo delle istituzioni e del diritto internazionali, della pace e della condivisione di responsabilità fra i diversi paesi, rilanciando contemporaneamente il ruolo dell’Onu e dell’Europa.

Tuttavia, non possiamo e non voglio io nascondere i punti di divergenza. Voglio qui mettere a tema {{alcuni aspetti di fondo, che stanno alla base del nostro giudizio negativo sulla missione in Afghanistan e su come noi intendiamo affrontare, ed affrontiamo, alcuni snodi fondamentali della politica internazionale.}} Voglio cominciare dal punto più lontano e più ostico, che ci rimanda all’11 settembre e alle strategie di contrasto del terrorismo, che da lì partirono. L’attentato alle Torri gemelle dettò, come era giusto che avvenisse, una dura presa di posizione delle Nazioni Unite contro il terrorismo, una presa di posizione che fu definita e argomentata nella risoluzione n. 1368 del 12 settembre 2001. Nel preambolo di quella risoluzione, il Consiglio di sicurezza, oltre ad invitare tutti gli Stati ad incrementare la cooperazione e l’azione contro il terrorismo, si dichiarava pronto ad intraprendere tutti i passi necessari per rispondere agli attacchi terroristici dell’11 settembre e per combattere tutte le forme di terrorismo, in conformità alle sue responsabilità secondo la Carta delle Nazioni Unite.
Tuttavia le Nazioni Unite non poterono fare nessun passo in questa direzione. Non ebbero il tempo di verificare responsabilità e fatti. Nessuna verifica fu possibile circa il coinvolgimento, nell’attacco alle Torri gemelle, del regime di Kabul o di settori di quel regime. Com’è noto, l’iniziativa unilaterale degli Stati Uniti – la missione di guerra contro Kabul, denominata Enduring freedom – ruppe gli indugi e aprì una nuova pagina nella politica internazionale, che via via si configurò come unilateralismo, violazione del diritto internazionale, teoria della guerra preventiva. Si affermò in quell’occasione un’impostazione strategica da parte della Presidenza Bush tesa ad affermare e a consolidare la supremazia globale degli Stati Uniti: solo loro erano legittimati ad operare in nome dell’ordine mondiale e fecero la guerra in modo unilaterale per difendere i propri interessi. L’emarginazione degli organismi internazionali fu decisiva ed era funzionale a questa visione del mondo e del potere globale.

Gli Usa, come sappiamo, non hanno retto alla prova dei fatti ed oggi ne vediamo i frutti nefasti, oltre ad assistere al tentativo della Casa Bianca di coinvolgere tutti gli alleati nelle avventure militari, vecchie e nuove, programmate in funzione di questa impostazione strategica, nei fatti sconfitta, come stanno a dimostrare i vari pantani di guerre mai concluse, che tuttavia la Presidenza Bush non vuole abbandonare, continuando a riporre su di esse l’idea di una rivincita. Emblematico, al riguardo, il modo in cui alla Casa Bianca viene affrontata la questione dell’Iran.

L’emarginazione dell’Onu dopo l’11 settembre fu una scelta calcolata e gli organismi internazionali vennero concepiti – Bush in realtà ancora li considera così – come mere casse di compensazione della politica degli Stati Uniti, sotto il loro esclusivo controllo. Kaplan, teorico delle strategie «bushane», ipotizzava una ristrutturazione dell’ONU che ridimensionasse gli europei ed escludesse i paesi disordinati, potenzialmente «canaglia», o comunque ininfluenti nel decidere le sorti del mondo.

{{La decisione di organizzare la missione Enduring freedom fu realizzata, voglio ripeterlo, con tempi così accelerati, che non permisero alle Nazioni Unite di capire quali fossero in quelle circostanze i suoi compiti e i passi più efficaci da compiere}}. Il 12 settembre, cioè il giorno dopo l’attentato, il Consiglio atlantico si riunì e convenne che l’attacco subito dagli Stati Uniti dovesse essere considerato come coperto dall’articolo 5 del trattato, quello che parla di autodifesa di un paese colpito da un nemico e dell’aiuto degli alleati a questo paese. Le prove della colpevolezza, non solo dei terroristi di Al Qaeda ma del regime di Kabul, vennero rapidamente fornite il 4 ottobre dall’ambasciatore statunitense ai ministri degli esteri e della difesa dei paesi alleati, e non fu necessario altro che quel rapporto, su cui nessuno chiese delucidazioni, per dare il via ai bombardamenti su Kabul. L’Italia partecipò fin dall’inizio alla coalizione di Stati a guida statunitense, in un primo tempo con un gruppo navale d’altura con il ruolo di controllo nel Golfo persico e successivamente, dal 15 marzo al settembre del 2003, con la task force Nibbio sul confine tra l’Afghanistan e il Pakistan.

L’ampiezza della coalizione che partecipò ad Enduring freedom non giustifica a nostro avviso l’assenza di condizioni di legittimità nel procedere con un’azione violenta di guerra per affrontare una vicenda di terrorismo internazionale – sia pure di vaste proporzioni come quella che colpì gli Stati Uniti, che richiede, invece, modi e mezzi tutt’affatto differenti -, contemporaneamente estendendo la responsabilità dell’atto terroristico ad un intero popolo, oltre che al regime dominante in quel paese. I cosiddetti effetti collaterali sono stati in questi anni numerosissimi – sono stati ricordati anche in questo dibattito – e continuano ad esserlo: sono la cifra della guerra in Afghanistan.
Dunque, per noi l’origine della guerra in Afghanistan ebbe una forte connotazione di unilateralismo ed arbitrarietà. Tale arbitrarietà risulta, a mio giudizio, evidente anche dai continui spostamenti interpretativi sul perché si fosse andati in Afghanistan, dai continui espedienti giustificativi della guerra, che vanno dall’idea, reiterata in più occasioni, di esportare la democrazia, di insegnare agli afghani ad essere civili e moderni – dopo tutti i silenzi e le complicità che gli Stati Uniti intrattennero con i taleban – all’ideologia della liberazione delle donne dal burka.

{{L’Onu fu chiamata successivamente ad autorizzare quanto era stato fatto}}. La risoluzione n. 1386 del dicembre 2001 autorizzò la costituzione di una forza di intervento internazionale (Isaf), con il compito di garantire l’area di Kabul e di tutelare l’autorità provvisoria afghana. Si trattò con tutta evidenza di un’autorizzazione ex post, con lo scopo di contenere e circoscrivere il ruolo delle truppe occupanti, vigilare sul destino del paese – salvaguardandone per il futuro l’indipendenza e la sovranità territoriale -, coinvolgere la comunità internazionale nella ricerca di una soluzione in tal senso, non dissimile nella logica ispiratrice, se non nelle soluzioni concrete, dalle analoghe risoluzioni che il Consiglio di sicurezza avrebbe votato nel 2003 sull’Iraq. La risoluzione n. 1483 del 22 maggio 2003 ribadiva, per esempio, i principi della tutela dei diritti di indipendenza e sovranità dell’Iraq, riconosceva l’autorità provvisoria e faceva appello alla comunità internazionale a che concorresse alla soluzione dei problemi. Il minor ruolo che l’Onu ha avuto direttamente in Iraq è dipeso in larghissima misura dalla difficoltà a consolidare una sua presenza continuativa in quel territorio. Le autorizzazioni ex post rimandano a compiti delle Nazioni Unite diversi da quello di assumersi la responsabilità di intervenire direttamente per dirimere le controversie internazionali secondo il capitolo VII della Carta delle Nazioni Unite, come è stato nel caso Libano.

Tanto più valgono queste mie osservazioni se pensiamo che {{nel 2003 in Afghanistan è subentrata la Nato per una decisione maturata a Washington, che con l’Onu non ha molto a che vedere e che mette in scena un uso spregiudicato dell’Alleanza atlantica da parte degli Stati Uniti. Siamo, cioè, di fronte a quella strategia a «geometria variabile» che ha dominato la scena internazionale dopo l’attentato alle Torri gemelle.}} In Italia, l’entrata della Nato nel teatro afghano non è stata minimamente discussa in sede parlamentare e questo è un altro elemento di forte dissenso da parte nostra.
{{È tempo di riaprire una discussione di fondo sulla Nato}}, non astrattamente, non come storia, non come realtà di alleanza tra paesi europei e tra paesi europei e gli Stati Uniti, ma nella sua funzione concreta, nell’evoluzione che essa ha avuto al riparo da discussioni negli organismi delle rappresentanze democratiche, nella relazione che intercorre oggi tra l’Europa e gli Stati Uniti, in rapporto alle questioni della difesa e della politica internazionale, e tra gli Stati europei. In altre parole, noi non accettiamo come un fatto normale che la Nato esca dai confini disegnati dal trattato del 1949 e vada in giro per il mondo a risolvere i problemi strategici degli Stati Uniti d’America, coinvolgendo tutti gli alleati nell’azione, in quanto decisione della Nato stessa. Il problema afghano è, oggi, tutt’uno con quello della Nato. Il destino di quest’ultima, che, per la prima volta, nella logica del nuovo concetto strategico messo a punto nel summit di Washington del 1999 – anche in questo caso una rivisitazione fatta al di fuori dei Parlamenti – si proietta in un territorio extraeuropeo, con compiti di risoluzione di un aspro completo bellico, in una regione, il Centroasia, di primaria importanza geopolitica, il destino della Nato, lo ripeto, dipende da come essa uscirà dalla vicenda afghana, da come riuscirà a risolvere la questione. Vi è una sovradeterminazione della Nato rispetto alle decisioni dei paesi che sono coinvolti nella vicenda militare, che deve essere interrotta; altrimenti non se ne uscirà mai.

Non siamo, infatti, soltanto noi ad essere sottoposti a pressing, perché diamo l’assenso ad un libero uso dei nostri contingenti. {{Il problema è, dunque, cosa sia oggi la Nato, cosa sia dal punto di vista degli Stati Uniti e cosa sia per l’ Europa.}} Per gli Stati Uniti, sicuramente, la Nato – che il Pentagono e le autorità militari statunitensi, non a caso, chiamano organizzazione e non alleanza – costituisce un utile magazzino di risorse militari. Oggi, essa concorre a tenere sotto controllo il teatro afghano, mentre gli Stati Uniti sono costretti ad impegnarsi sempre più in quello iracheno; per il Pentagono rappresenta, insomma, una struttura al servizio della sicurezza nazionale e delle proiezioni internazionali. Per l’Europa è un grande equivoco: andrebbe chiarita l’alleanza tra l’Europa e gli Stati uniti, che nessuno vuole mettere discussione; essa deve essere ridefinita su basi completamente nuove, perché la Nato, proprio per le ragioni che ho esposto, rappresenta un organismo obsoleto, il quale impedisce che decolli seriamente, in Europa, una discussione approfondita sulle scelte di politica internazionale dell’Europa stessa e sull’idea di difesa europea del nostro continente.

Ho colto, nelle relazioni del presidente Ranieri e della presidente Pinotti il segno di una riflessione che, se non è critica, certo mostra forti preoccupazioni sull’evoluzione delle vicende in quel territorio. Mi auguro, ed auguro al Governo che sosteniamo, che la riflessione sia veramente ampia e la spinta a cercare soluzioni diverse, attraverso l’impegno per la Conferenza internazionale e la discussione in tutte le sedi internazionali competenti, dia frutti positivi in tempi ragionevoli, tali da giustificare il voto a favore del provvedimento che noi, come Rifondazione Comunista-Sinistra Europea, esprimeremo domani”.