Viene pubblicato per la prima volta nell’Universale Feltrinelli la nuova edizione del  romanzo di Luce d’Eramo, Deviazione, con un’introduzione di Nadia Fusini. Un testo che è diventato un classico, che non si smette mai di leggere. In questa occasione pubblichiamo un articolo apparso nel fascicolo speciale di Leggendaria n.99 dedicato all’autrice

Non passa inosservato il titolo dell’ultimo volume pubblicato in vita nel 1999 da Luce D’Eramo, Io sono un’aliena, preceduto di un paio di mesi dalla raccolta Racconti quasi di guerra, mentre l’ultimo romanzo, Un’estate difficile, è apparso postumo nel giugno 2001. Anche oggi questo titolo – che è una vera e propria autodefinizione, quasi una certificazione di identità – sorprende, spiazza, incuriosisce. Già Arthur Rimbaud aveva mostrato che “io è un altro”. Dire “io è un alieno” è uno spostamento netto, è fuoriuscire dai confini dell’umano, guardare e guardarsi da un punto distante, collocato altrove. Alieno era una parola, un concetto – si potrebbe dire una dimora – che Luce D’Eramo abitava da tempo. Nel 1993, in un’intervista pubblicata su Noidonne, in risposta alla classica domanda per chi scrivi, Luce mi diceva: «Per i posteri. Scrivo come se fossi morta. La cosa più aliena per noi è la morte. La morte si addice agli altri. Eppure è un dato reale, un fatto naturale, mi pertiene. Quando scrivi come se fossi morta vedi la naturalezza per te, come se fosse qualche sosta prima del nirvana, prima della scomparsa, dove guardi le cose con un occhio particolare. Una percezione di quel misto di distanza e di struggimento, di commozione, dove anche se ci si arrabbia, lo vedi da lontano. È un rapporto particolare con la tragedia, ma anche con le cose buone».

Da tempo Luce D’Eramo frequentava altri mondi. Esseri alieni sono i protagonisti del romanzo da lei più amato, Partiranno (1986), dove si narrano le vicende di alcuni esploratori provenienti dallo spazio, i Nnoberavezi, che soggiornano sulla terra per un breve periodo. Un testo che ha occupato un lungo tempo della vita di Luce, i primi appunti risalgono al 1963 per concludersi nel 1981, anno in cui era iniziata la vera e propria stesura, che ha preso cinque anni. In Io sono un’aliena, il suo testamento letterario, Luce lo definisce «il libro che mi ha dato più spazio mentale», e aggiunge: «Mi sentivo osservata da loro e quindi vedevo me stessa e tutte le nostre convinzioni con spirito lì per lì un po’ interdetto, e poi con sempre più ironia gentilmente meravigliata».

Tempo, spazio. E se è facile ricordare che secondo Kant, il filosofo a cui Luce dedicò la tesi per la laurea in filosofia conseguita nel 1954, sono gli apriori fondamentali per l’esistenza di un io cosciente, mi pare che per la scrittrice D’Eramo tempo e spazio giochino un ruolo specifico, strutturale per la sua postura di autrice, al di là del quotidiano scorrere del tempo con cui ogni narrazione si misura. Non solo Luce proietta se stessa fuori dall’orbe terrestre, nel cosmo, ma è anche evidente che scrive –per e in un tempo – che coincide solo in parte con il presente: «So che quanto sto dire suona d’una presunzione inaudita, eppure nell’intimo mio più segreto scrivo per i posteri: a momenti mi pare di leggere con gli occhi del futuro le mie storie trascorse, trapassate, datate, superate» scrive in Io sono un’aliena, parole che rafforzano e ampliano il senso di quanto detto nell’intervista di qualche anno prima. È l’autrice – la Luce D’Eramo che scrive e racconta – che è fuori dal tempo e spazio che potremmo definire umano, terrestre, o sono le storie che sono appunto trapassate, datate, superate? In questo senso, nell’assunzione della tensione racchiusa nei termini di questa domanda, che vorrei qui proporre tempo e spazio come i cardini che danno significato e sostanza al suo mondo narrativo. Che siano testi di dichiarata memoria (Deviazione) o di narrazione del presente quasi nella forma del romanzo d’azione (Nucleo Zero), i suoi libri ospitano sempre al loro interno una pluralità di mondi, lingue, velocità, che strutturano un tempo e uno spazio perlomeno complessi, stratificati. Che costituiscono da un lato l’oggetto della narrazione, cioè vi si racconta la particolare configurazione degli accadimenti e della loro comprensione da parte delle diverse soggettività che agiscono– i personaggi e attraverso di loro l’autrice: «Io li spio, i miei personaggi. Non so nulla del loro passato tranne quello che sanno loro in quel momento. Così entro in rapporto con l’altro, con quello che ti è alieno» (intervista a Noidonne 1993).

In Io sono un’aliena scrive, tra l’altro: «Perciò in ogni mio romanzo il ritmo e il linguaggio si modificano, come in Deviazione attraverso la trasformazione dell’io narrante nei decenni, ma soprattutto come in Nucleo Zero, Partiranno e Ultima Luna a seconda dei personaggi che entrano mano mano in azione, coi loro mutamenti interni nello svolgersi degli avvenimenti». E sono dunque questi mutamenti, movimenti nel tempo e nello spazio, – a costruirne la stessa architettura narrativa. Non solo. Le diverse velocità, i salti temporali, le dislocazioni danno forma all’insieme dell’opera di Luce D’Eramo, che mi appare sempre più nitidamente come un dispositivo per un viaggio temporale, proprio come la classica Macchina del tempo ideata H.G.Wells. Viaggi nel tempo e ti sposti nello spazio, sei in un luogo e arrivi a un altro. Come scrive in Deviazione: «A volte quando si tocca il fondo di uno sviamento, si sbuca infine dall’altra parte».

Dico tempo e non memoria, perché non si tratta mai esclusivamente della memoria singolare, personale dell’autrice e/o dei suoi personaggi, ma di quel punto della memoria coscienziale interna che si confronta/scontra sul tempo/spazio scandito dagli altri, e qui trova il proprio passaggio, fino a mettere in discussione se non ribaltare gli assi della memoria collettiva.

Al centro è naturalmente Deviazione, che non è il racconto lineare della tragica vicenda di una ragazza italiana borghese che a 18 anni, nel momento del crollo del fascismo, decide di andare volontaria nei campi di lavoro tedeschi, per verificare di persona lo stato di verità dei suoi ideali in crisi. E si trova a vivere, nella coscienza e nel corpo, l’orrore della distruzione, il ritorno in Germania, a Dachau, e la fuga successiva. Deviazione è la complessa costruzione narrativa di uno spostamento della coscienza, perseguita attraverso mezzi plurilinguistici, sporchi, impuri. Racconti scritti nel passato. Esposizione di flussi di coscienza, registri linguistici diversissimi, tutto per portare chi scrive e chi legge, verrebbe da dire il corpo di chi scrive e chi legge («Per me, scrittore e lettore non possono fare a meno uno dell’altro» Io sono un’aliena), attraverso quel passaggio che porta dall’altra parte. Dove tempi e spazi plurali – e fino a quel momento conflittuali – coesistono nella loro diversità, e nell’altrove che si è conquistato possono finalmente essere guardati per quello che sono.

Atto esemplare di questo processo creativo, di cui Luce D’Eramo in Io sono un’aliena mostra piena consapevolezza, è la vicenda – che non è solo una storia editoriale – dei Racconti quasi di guerra. Pubblicati, come già scritto in precedenza, nel 1999, sono tutti relativi al periodo tra il 1943 e il 1945, la fase più dura della seconda guerra mondiale. E sono stati scritti in epoche diverse, tra il 1943 e il 1956, in un’epoca molto lontana dalla pubblicazione. «Il 25 luglio, che è l’unico racconto nudamente autobiografico, pur redatto pochi giorni dopo gli eventi narrati, è scritto al passato remoto» scrive Luce nell’importante Nota d’autore, che conclude il libro. L’autrice ha 18 anni, scrive in prima persona quasi in tempo reale, un paio di settimane dopo i fatti che racconta, il viaggio in treno tra Alatri, dove era sfollata con la famiglia, a Roma, dopo il 25 luglio del 1943. Usa una lingua compiutamente letteraria, densa, forte, duttile, capace di articolare il confronto tra l’io che scrive, sotto l’effetto del crollo del suo mondo ideale a cui aderiva appassionatamente – il fascismo – e il coro dei passeggeri del treno, ignari interpreti, ai suoi occhi, della tragicommedia che si svolgeva totalmente dentro di lei, della caduta di un tiranno. Di Idilli, il secondo degli altri otto racconti, mi disse in un’intervista in occasione dell’uscita del libro: «Li ho scritti a Merano, nel ’45, quando mi trovavo in un ospedale in transito, immobile, in un letto di gesso, con nessuna prospettiva dell’avvenire…Avevo un tal bisogno di pace che ho scritto Idillio-Lui. A pensarci oggi mi fa accapponare la pelle che proprio in quei momenti sono andata a scrivere una storia di totale astrazione, quasi leggera. Arrivata un mese dopo a Bologna, in un ospedale di reduci, gente che urlava in immense corsie, ho scritto l’Idillio-Lei».

Degli altri, scritti negli anni cinquanta, Luce commentava: «Per quanto riguarda gli altri racconti sentivo che le cose non erano come le raccontavano tutti. Bisogna tenere conto che Primo Levi non era ancora stato pubblicato…Così scrivevo per conto mio. Eppure non riuscivo ad arrivare alla mia storia. Partivo dall’evasione. L’ultimo atto di assoluta autonomia. Ho camminato in pochi mesi quello che una persona non cammina una vita intera, sono andata a Monaco di Baviera e poi a Magonza, perlopiù a piedi». I testi di allora, pubblicati in un presente in cui era in corso la guerra in Kosovo, con la partecipazione dell’Italia ai bombardamenti, sono un elemento di quel viaggio nel tempo in cui consiste il dispositivo narrativo di Luce D’Eramo.

Scritti prima dell’emersione della Deviazione, trasportano autrice e lettori in un ritorno dal futuro: non puoi cambiare i fatti accaduti, e neppure il modo di raccontarli, ma puoi ricollocarli, osservarli con la “gentilezza meravigliata» che viene dal venire da un altrove, in uno “spazio mentale” che – ancor prima di giudicare – può e sa incuriosirsi di quello che trova. È in questa particolare posizione, tra un prima e un dopo, fucina creativa di una scrittura che l’ha accompagnata tutta la vita, che Luce D’Eramo ha trovato la postura necessaria e fortemente etica della sua scelta di scrivere, dando voce alle verità custodite dalla propria memoria individuale in dissonanza con la memoria comune, pubblica. Utili per il presente. «Spero che questo» – i racconti di evasione ndr- disse nel 1999 ragionando sulla ex-Jugoslavia e Milosevic- «possa far riflettere sui modi di combattere queste forme di crudeltà statali…È molto importante sapere questo. Soprattutto quando si fa una nuova guerra. Avere consapevolezza della limitatezza di un potere terribile e di quali possono essere le azioni per scalzarlo».

Si va e si viene, dall’altrove. Un luogo e un tempo dove si può guardare quello che di solito è invisibile, indicibile. Come quando consegna ai lettori il racconto dell’incontro con il barista all’interno del museo di Dachau, dove è tornata cinquant’anni dopo, per un film della tv tedesca: “«Chi abita in questa zona?» domando io. «Qui noi tedeschi siamo pochi», risponde lui, «siamo soprattutto stranieri di ventisette nazionalità, verstehen Sie?», mi ammicca, «figli degli ex internati sopravvissuti nei lager della zona, tutta gente rimasta qui dopo la liberazione, verstehen Sie?», ripete, «non sapevano più dove tornare, deplaced persons, und so leben wir zusammen (viviamo assieme), i nostri nipotini ormai parlano solo tedesco»”. (5 aprile 2017)

Luce D’Eramo. Mettersi nella pelle dell’altro, intervista di Bia Sarasini Noidonne giugno 1994 pp. 50-51

Noi evasi occupati a vivere intervista di Bia Sarasini, Noidonne maggio 1999 pp. 72-73

Luce, Wanda, Jelena. Es war nicht ihr Krieg,con Luce d’Eramo, Wanda Heger, Jelena Rschewskaja regia di Renate Stegmüller e Raimund Koplin , 1994, produzione Renate Stegmueller Filmproduktion, in co-production with WDR/Cologne, BR/Munich, SFB/Berlin

Herbert George Wells, La macchina del tempo, Mursia