Salviamo la pensione delle donne: parte da Pisa l’appello “riprendiamoci il nostro tempo”; il documento è stato inviato alle Parlamentari{{Quando si calcolano gli anni di lavoro femminile due più due fa cinque}}. Dati Eurostat e Commissione Europea (2006-2007) e ISTAT 2008 ([leggi->http://www3.istat.it/dati/catalogo/20080904_00/]) attestano che in media le donne italiane lavorano 60 ore la settimana: sono in Europa quelle che lavorano di più. Sulla somma incidono sia il lavoro retribuito svolto fuori casa che quello non retribuito prestato in ambito familiare. Questo lavoro gratuito, che gli indicatori economici non rilevano, tiene in piedi la società la quale, però, restituisce alle donne assai poco rispetto a quanto da loro riceve.

Oggi, infatti mancano i servizi di assistenza per l’infanzia e quelli per gli anziani.

Le donne in Italia si prendono cura della famiglia, hanno spesso lavori precari, carriere intermittenti, redditi più bassi, scarsa disponibilità di servizi sociali, sono assenti nelle stanze che contano, anche in quelle in cui si decide di mandarle in pensione a 67 anni. Oggi le donne tra 50 e 60 anni hanno, nella gran parte dei casi, genitori ottantenni che hanno bisogno di assistenza da parte della famiglia.

I dati sull’occupazione femminile in Italia sono i peggiori d’Europa: il 2009 ha visto interrompersi il trend di crescita dell’occupazione femminile (15-64 anni) che aveva contraddistinto i precedenti anni, assestandosi il tasso di occupazione al 46,7%, valore molto lontano sia dalla media europea del 58,6% che dall’obiettivo comunitario di raggiungere il 60% di occupazione femminile per il 2010 (strategia di Lisbona 2000).

La crisi economica, sociale, culturale e ambientale causata dalle politiche dei governi che si sono succeduti negli ultimi anni e aggravata dalle strategie del governo Monti e dalla riforma Fornero (permanenza al lavoro delle persone più anziane, blocco del turnover, riforma del lavoro…) ha peggiorato la situazione dell’occupazione giovanile, colpendo soprattutto le donne e, in particolare, quelle con lavori temporanei. Le situazioni di maggiore criticità si registrano fra le giovani donne che -dotate sempre più spesso di elevati livelli di istruzione- faticano più dei loro coetanei ad accedere al mercato del lavoro e per le over 50enni, la cui partecipazione è lontana dagli obiettivi di Lisbona non solo per la presenza di modelli ‘male breadwinner’ ancora vincenti, ma anche per il sopraggiungere di nuove esigenze di conciliazione, legate all’assistenza a parenti anziani non più autosufficienti, a cui il sistema di welfare pubblico fatica ad offrire risposte. Vi è, infine, il tema della qualità della relazione fra donne e lavoro, che molto incide sulla tenuta occupazionale, soprattutto nei momenti di crisi (IRPET, 2011).

Benché occorra più tempo per valutare a pieno {{gli effetti della riforma Fornero}}, un primo rapporto del novembre 2012 (SeCo Statistiche e comunicazioni obbligatorie) sui contratti di lavoro intermittente (ri-regolato dalle L.92/2012) fa rilevare che le assunzioni sono diminuite fortemente in tutte le aree (circa -30%), sia rispetto al trimestre precedente che al medesimo trimestre dell’anno precedente (-70%). Di converso sono ovunque aumentate le cessazioni (+40% sia rispetto al trimestre che all’anno precedente), di cui solo il 15% circa si è trasformato in un lavoro a tempo indeterminato e quasi sempre part-time.

Secondo il Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro -CNEL- la situazione dell’occupazione femminile si è aggravata proprio a causa della scarsità di servizi sociali di supporto alle famiglie, dei carichi di lavoro famigliare, ancora appannaggio quasi esclusivamente femminile, del “tetto di cristallo” e delle retribuzioni inferiori rispetto a quelle maschili, con riflessi conseguenti anche sulla situazione pensionistica.

L’aumento dei costi e la scarsità dei {{servizi sociali a sostegno della prima infanzia}} riconosciuti in Europa come un forte fattore facilitante la crescita del lavoro femminile, ([leggi->http://europa.eu/rapid/press-release_MEMO-13-1_en.htm?locale=en#PR_metaPressRelease_bottom]) sono una delle prime cause per cui le donne decidono di non lavorare o di smettere di lavorare o di non tornare a lavorare dopo la nascita del primo figlio. La probabilità di non lavorare 18-21 mesi dopo la nascita di un figlio è di quasi il 50%. Ovviamente le donne con titolo di studio più alto rientrano al lavoro dopo il parto e riescono a gestire meglio delle altre i problemi legati alla conciliazione dei tempi di vita e di lavoro.

Un altro ostacolo al lavoro femminile è il tempo dedicato alla{{ cura della famiglia e della casa}}, che risulta ancora a carico delle donne per il 77% {(Rapporto sulle donne in Italia } CNEL, 2010).

Altro motivo per cui le donne non possono iniziare o smettono di lavorare è quello di doversi sostituire alle badanti, a causa dell’impossibilità delle famiglie di sostenerne le spese, ma anche di dover supplire alla carenza dei servizi sanitari, caricandosi non solo della attività tradizionali di cura ma anche di servizi nuovi e complessi che vengono delegati dal sistema sanitario ai familiari, come l’assistenza ai malati cronici (SLA, patologie psichiatriche, dipendenze, dialisi etc.).

In questi casi le donne si vedono costrette ad accettare anche condizioni di pensionamento con abbattimenti in termini economici fino al 30% (vedi l’opzione contributiva prevista per le donne a 57 anni e 35 di servizio, fino al 2015). Tale disposizione non può che contribuire al drammatico aumento della povertà per le donne, con inevitabili ripercussioni su tutta la società.

Per contro, le donne che rimangono a lavorare, sono sottoposte {{a ritmi di vita frenetici}} per riuscire a coniugare impegni lavorativi e familiari, obbligate a confrontarsi con sistemi di gestione sempre più gerarchici, competitivi e punitivi, lontani dalla loro formazione e dalle loro competenze più orientate alla cooperazione, al lavoro orizzontale e all’inclusione. Le lavoratrice, schiacciate da tutte queste pressioni, soffrono di patologie psichiche in misura prevalente e crescente rispetto agli uomini, compreso lo stress lavoro correlato, aggravato dal rischio psico-sociale connesso al doppio carico di lavoro ([…]).

Non mancano dati statistici in grado di descrivere il perdurante impatto dei tempi di lavoro (retribuito e non) sulla vita quotidiana delle donne (madri e figlie) con effetti sulle loro opportunità, sulla qualità della vita percepita e sulla salute.

Dati epidemiologici rilevano che gli innegabili miglioramenti delle condizioni di sopravvivenza sono concentrati nelle fasce di età anziane (a 65 anni la differenza di sopravvivenza tra gli anni ’90 ed il 2009 è praticamente immutata per le donne). In generale all’aumento dell’aspettativa di vita non corrisponde un aumento dello stato di salute, come riporta il Libro verde sul welfare ([leggi->http://www.edscuola.it/archivio/handicap/libro_verde_welfare.pdf]) e, soprattutto in Italia,{{ l’aspettativa di vita in buona salute}} è drammaticamente crollata per le donne negli ultimi anni.

Molte patologie ad {{elevato impatto debilitante}} sono femminili, si pensi all’artrite reumatoide, all’osteoporosi, ai disturbi muscolo scheletrici e ad alcuni tumori, in generale sempre più frequenti nonostante che sia riconosciuto come le generazioni coinvolte abbiano assunto stili di vita più salutari degli uomini.

L’allungamento dell’età pensionabile, la diminuzione delle pensioni in termini economici, insieme alla trasformazione degli ambienti di lavoro renderanno la situazione delle donne insostenibile, sia durante la fase lavorativa che dopo:

donne costrette a lavorare in condizioni di salute precarie
acuirsi delle difficoltà che già normalmente ostacolano una competizione alla pari sul posto di lavoro con i colleghi maschi
minore possibilità di carriera e quindi pensioni più basse a fine lavoro
necessità di smettere di lavorare o di andare in pensione con trattamenti minimi e quindi ad elevato rischio di povertà

Mai {{i danni della riforma Fornero}} ricadranno sull’intera comunità:

l’invecchiamento lavorativo fa perdere competitività al sistema
il prolungamento dell’età pensionabile non consente l’ingresso delle/dei giovani nel mondo del lavoro
gli anziani e i bambini sono sempre più senza servizi o cure familiari e in condizioni economiche precarie.

Per i suddetti motivi le donne lavoratrici del settore pubblico e privato, come operaie, medici, infermiere, insegnanti, tecniche, non possono essere obbligate a lavorare oltre i 60 anni.

L’allungamento dell’età pensionabile chiude le porte alle nuove generazioni, altro che patto di solidarietà!

Le donne non vogliono rimanere a lavorare per pagare quello che altri nella società hanno speso e spendono.

A pagare devono essere coloro che hanno portato l’Italia sull’orlo del disastro e quelli che si sono arricchiti sfruttando il loro lavoro e le loro esistenze.

È necessario in Italia{{ un adeguato sistema di welfare}} che consenta alle donne di avere il tempo di partecipare alla vita sociale delle comunità locali, di impegnarsi per la realizzazione di una società più giusta e più solidale, dove tutti possano lavorare di meno e meglio. Essere attive in questo senso aiuterebbe le donne ad invecchiare in buona salute senza farmaci, allontanando i disturbi intellettivi ed emotivi, la depressione e le disabilità fisiche.

La Fornero promulgando la sua riforma non ha saputo tener conto che proprio per raggiungere l’equità non è possibile stabilire criteri uguali per tutti, laddove si parta da condizioni discriminanti e da diseguali opportunità socio economiche tra maschi e femmine. Non dovrebbe essere difficile da capire.

Anche l’alibi di adeguamento agli standard europei evidentemente non regge in considerazione della diversità del contesto socio-economico (maggiori servizi, ammortizzatori etc.) e della maggiore flessibilità nell’età pensionabile, in altri Paesi membri.

Si può, invece, impostare un sistema pensionistico che contempli flessibilità e libertà di scelta, in modo da conciliare politiche di lavoro ed esigenze personali, insieme a misure organizzative favorevoli ad una maggiore flessibilità del lavoro.

{{Proposta operativa:}}

Sistema pensionistico flessibile con una soglia minima di 60 anni o 35 anni di servizio (senza penalizzazione economica)
Sostituzione di ogni donna anziana pensionata con una/un giovane
Riduzione dei compensi esagerati dei manager e delle relative pensioni in favore di una ridistribuzione più equa della ricchezza fra lavoratrici/tori e fra pensionate/i
Riconoscimento economico (ed anche ai fini pensionistici) e del valore sociale ed etico del lavoro di cura, sia che venga svolto dalle donne che dagli uomini.
Forme di flessibilità ed organizzative che tengano conto dell’invecchiamento della forza lavoro senza penalizzazioni sul fronte delle opportunità di carriera ed economiche.
Implementazione di forme di flessibilità del lavoro, come telelavoro, part time, banca delle ore, orario personalizzato etc, in relazione anche alle nuove norme sulla valutazione del personale (per obiettivi).

Nessun voto delle donne andrà a supportare politiche vessative in tema di pensione

{{Comitato promotore Riprendiamoci il nostro tempo-Casa della donna di Pisa}}

{Maria Grazia Petronio, Dusca Bartoli, Danila Scala, Paola Bora, Alessia Petraglia, Lorella Zanini Ciambotti, Simonetta Ghezzani, Giovanna Zitiello, Adele Dramisino, Tiziana Nadalutti, Simona Mussini, Cristina Filippini, Pina Salinitro, Maria Laura Ruiz}

Per informazioni ed adesioni
Casa della donna di Pisa via Galli Tassi n.8 Tel. 050 550627
www.riprendiamociilnostrotempo.it