Dopo la sua ultima mostra a Mantova, organizzata dal Gruppo 7 – Donne per la pace,  Annalisa Ramondino ripropone nel Castello Manservisi, a Castelluccio di Bologna, Fili rifili relitti riusi, aperta dal 29 luglio al 16 agosto.

Annalisa Ramondino , giramondo dotata di sguardo curioso, di fantasia fervida, di senso poetico e di spirito fanciullesco,  ha la preziosa capacità di intuire, in quello che le capita sotto gli occhi, potenzialità insospettate che attualizza in forme nuove e giocose; e in ogni forma si esprime un frammento di esperienza, tappe di un’autibiografia inconsapevole.

Già la sua infanzia è stata una ricca occasione di esperienze, cresciuta come è  in un ambiente cosmopolita, nella famiglia di un diplomatico: il padre, durante la II guerra mondiale, è stato console in Spagna, a Palma di Maiorca – dove Annalisa è nata- e poi per breve tempo in Francia. Tornata in Italia ragazzina, Annalisa studia prima a Napoli, la città d’origine della famiglia, e poi a Roma, dove si laurea in Scienze naturali.

 Comincia da allora a viaggiare, in Italia del Sud, in Tunisia, in Iran. Va a Londra come ragazza alla pari  per imparare l’inglese e a Londra ha l’occasione di avvicinarsi alla medicina tradizionale cinese (e alla pratica dell’agopuntura), la cui conoscenza perfezionerà poi a Shangai e a Nanchino e, molto recentemente, in Danimarca. Intanto insegna Matematica e osservazioni scientifiche nelle scuole medie.

Dal 1980 comincia i suoi viaggi sistematici intorno al mondo, viaggi dai quali ricava ispirazione e materiali: i più disparati, vecchi legni e vecchi ferri, contenitori curiosi e magari ammaccati, imbuti decorati, scatolette di latta dalle ruggini interessanti, grattuge che non grattugiano più, oggetti improbabili pescati nei mercatini poveri a lato delle strade o nei suk, stoffe inutilizzate pensate per altri usi, di seta e di velluto, rocchetti di fili di metallo dai colori diversi… E inventa accampamenti guerreschi, città utopiche, palazzi del vento, fabbriche dismesse, case da passeggio, teatri d’ombre di vestitini dalla trama metallica sottile e lucente; negli ultimi tempi quadri e composizioni astratte coi ritagli delle stoffe preziose che l’Oriente le offre, o magari Porta Portese; ritagli che le suggeriscono anche bracciali inconsueti, che cuce divertendosi nei suoi spostamenti ferroviari da Roma a Itri e da Itri a Roma.

Nella casa di Itri, lavora con un amico lattoniere, ma soprattutto con Ilvo Carletti, imperdibile artifex, che con notevole abilità e affettuosa partecipazione  traduce nel concreto i disegni e i modelli in cartone ideati da lei. Da vedere la casa di Itri, che ha accanto  una “discarica dell’invenzione”, dove si ammucchiano, raccolti in vecchie cassette da frutta, reperti di ogni tipo, pezzi di legni scoloriti, un tempo travi di soffitto o assi di cabine da spiaggia e di barche ora sfasciate, resti di lamiere, brandelli di vecchie gomme di copertoni, bulloni, tondini di ferro, reti da muratura, vetri, frammenti di specchi dipinti… E’ il trash.

Annalisa raccoglie, raccoglie nel caos di ciò che è stato consumato dal tempo e dall’uso e perciò è stato buttato, ciò che le occasioni dei suoi viaggi e la quotidianità del caso le offrono; il caso è una sorta di ‘coautore’ nel suo lavoro, ma gli esiti dei suoi interventi sugli oggetti recuperati sono tutt’altro che casuali, pensati invece e studiati con alle spalle la conoscenza della storia dell’arte, delle avanguardie, dei movimenti degli anni ’60 e ’70 del Novecento, o di Melotti, per esempio, e del Cornell delle Shadow Boxes.

E come una apprendista stregone, Annalisa anima di nuova vita gli scarti, con un’attenzione esperta ai materiali e ai colori (che sa valutare o determinare con tecniche sperimentate), che sono centrali nella sua produzione: un bricolage, un “ far di tutto” di sapore dada, un “far da sé” che risponde a una visione artigianale e femminile della creazione artistica; e il bricolage ha -lo diceva Derrida- una forte capacità mitopoietica, di invenzione, la capacità cioè di produrre mito, favola. Le cose diventano storie, la spazzatura diventa linguaggio, si fa cultura visiva attraverso la provocazione dell’intelligenza, l’uso tenero dell’ironia: un’ironia sentimentale e intellettuale dagli esiti estetici evidenti nella sapienza formale, immediata e un po’ spiazzante, degli oggetti di Annalisa.

E poi un’osservazione ultima:  l’accenno  a un aspetto implicito, che però propongo con un po’ di esitazione, perché nel lavoro di Annalisa non c’è alcuna intenzionalità moralistica o didascalica; è l’aspetto che vorrei dire  ‘politico’: in una società consumistica come la nostra, qualsivoglia recupero di ciò che scartiamo può anche avere il senso di una volontà -sotto traccia, controcorrente, che ha valore di esempio- di rifiuto del consumo attraverso il reimpiego del relitto, il suo riuso. In questo caso ‘nobile’.

D’altra parte Annalisa stessa dice: “sento il mio lavoro come un ricostruire… un riparare”.