A gennaio si è conclusa Soulèvements, mostra curata da Georges Didi-Huberman per il Jeu de Paume, museo nazionale. Il 24 febbraio è iniziata (e si concluderà il 21 maggio) la mostra L’esprit français, Contre-cultures 1969-1989 alla Maison Rouge, un grande spazio espositivo privato. In entrambi i casi, l’insurrezione e la rivolta sembrano trovare, al di fuori del loro contesto originario d’espressione, un tempo ulteriore per produrre senso grazie alla curiosità museografica. E ciò avviene nelle pulite sale espositive di istituzioni sia pubbliche che private. Risulta inevitabile, in casi come questi, interrogarsi sul dispositivo retorico che i curatori hanno messo in atto, per comprendere in che direzione, secondo quali tagli selettivi, essi vogliono ridare senso a certi documenti, a certe opere, indirizzandosi al pubblico di consumatori culturali. In che modo e con quale scopo, insomma, si mette in mostra un’insurrezione, uno spirito critico?

Nel caso di Soulèvements (insurrezioni) di Didi-Huberman, prevaleva un’attenzione al ruolo delle emozioni nella storia, emozioni come motori collettivi di rifiuto e contestazione dell’ordine esistente. Nell’assumere questa visuale, il curatore s’inseriva in un dibattito storiografico già avviato, che rivalutava il ruolo delle emozioni nella comprensione dell’agire sociale. Nello stesso tempo, la fotogenia delle immagini di lotta, all’interno dell’allestimento museale, finiva per appiattirle e renderle equivalenti, espressioni variabili di un archetipo che, in ogni tempo e luogo, si ripete. Così, almeno, nell’analisi critica che della mostra ha fatto François Nicolas, in un articolo apparso sul sito “Mediapart” il 22 dicembre 2016. Secondo Nicolas, “la mostra destoricizza il suo repertorio d’insurrezioni (…). Georges Didi-Huberman fa l’elogio delle singolarità ma le sue insurrezioni, cosi formalizzate, finiscono per diventare un’unica cosa: l’insurrezione di un grido senza altra idea precisa che un ‘No’, senza una propria potenza affermativa”.

Guillaume Désanges e François Piron, curatori di L’esprit critique , sembrano essersi mossi in tutt’altra direzione. Se anche per loro vale il contrasto tra una materia documentaria “incandescente” e la rassicurante neutralità del white cube museale, più esplicito vuole porsi il rapporto della mostra con l’attualità storica. Essa propone la rilettura dell’ultimo grande ventennio di lotte del Ventesimo secolo proprio a ridosso delle elezioni presidenziali del 2017. Inoltre, il partito preso è quello della “storia delle idee”, con il peso tutto spostato non più sull’azione spontanea, ma appunto su tutto ciò che nutre l’immaginario e la mentalità collettiva, dal volantino al libro di anti-psichiatria, dal manifesto femminista alla trasmissione di una radio indipendente.

Rispetto a queste intenzioni tutto sommato buone, che realizzano un’esplorazione a tutto campo di una produzione underground tanto multiforme quanto minacciata dall’oblio o dal ricordo parodistico, il titolo scelto suona perlomeno paradossale. La controcultura degli anni Settanta viene infatti identificata con uno spirito “sovversivo” tipicamente francese e tutto il percorso espositivo, pur essendo estremamente ricco di materiale, privilegia un’inquadratura nazionale, che risulta spesso forzata se non semplicemente riduttiva. L’operazione non è ovviamente innocente. Innanzitutto, i movimenti di contestazione degli anni Settanta, alcuni dei quali scelgono come bersaglio privilegiato proprio l’ideologia nazionalista, vengono in tal modo riassorbiti nella storia del “romanzo nazionale”. Ad essere sovversivo, insomma, sarebbe un certo carattere del popolo francese, o almeno di una sua cerchia intellettuale e artistica. Ed è indubbio che esista una via al punk tipicamente francese, così come una pratica del femminismo ben radicata in una serie di esperienze precedenti, legate alla storia e alla cultura francese. Ma ho subito voglia di ricordare quanto scrivevano Arrighi, H. Hopkins e Wallerstein in Antisystemic movements nel 1992 (manifestolibri): “Ci sono state solo due rivoluzioni mondiali. Una del 1848. La seconda nel 1968. Entrambe hanno fallito. Entrambe hanno trasformato il mondo”. È difficile parlare di tutto ciò che accade negli anni Settanta in Francia riguardo alla critica delle istituzioni e delle forme di vita quotidiane, senza fare riferimento a quanto stava accadendo altrove nel mondo.

Questo vale a maggior ragione per un percorso espositivo che si vuole incentrato sulla storia delle idee, le quali hanno una circolazione ben poco propensa a rispettare confini e culture nazionali. È impossibile, ad esempio, nella sezione dedicata alla scuola non affiancare a classici della letteratura critica francese, come il Journal d’un éducastreur di Jules Celma del 1971, l’edizione francese di Descolarizzare la società di Ivan Illich, apparso lo stesso anno per Seuil (Une société sans école). E i curatori stessi, nel piccolo libretto che costituisce una guida ragionata alla mostra, finiscono più volte per fare riferimento alla free press statunitense o all’attitudine Do It Yourself resa internazionale dall’esplosione del punk inglese.

La mostra, d’altra parte, presenta al di là dei limiti di questa impostazione, diversi elementi degni d’interesse. Il primo è evidente fin dalla cronologia selettiva che introduce lo spettatore alle sale dove sono allestiti i documenti (tanti) e le opere d’arte (poche). Questa cronologia ci sorprende soprattutto per i fenomeni di simultaneità, ma anche per il suo taglio poco convenzionale, dal momento che tratta assieme gli anni dell’impegno e quelli del riflusso, permettendo al di sotto delle opposizioni più apparenti di decifrare logiche evolutive peculiari. I primi anni Settanta costituiscono un fiorire ininterrotto di ogni tipo di collettivo militante. Dopo il Sessantotto, assistiamo in pochi anni alla comparsa del Gruppo Dziga Vertov, capeggiato da Jean-Luc Godard, del MLF (Movimento di Liberazione delle Donne), in cui milita la scrittrice Monique Wittig, del FHAR (Fronte omosessuale d’azione rivoluzionaria), delle Gouines Rouges (collettivo femminista lesbico), del GIP (Gruppo d’informazione sulle prigioni), di cui fanno parte Michel Foucault e Pierre Vidal-Naquet. Ognuno di questi collettivi esercita non solo forme di contestazione di una condizione specifica (donna, omosessuale, studente, malato di mente, detenuto, ecc.), con un relativo bagaglio di rivendicazioni di carattere politico, ma, in discontinuità con le pratiche di lotta burocratizzate della vecchia sinistra, prende la parola in modo autonomo, la prende animando assemblee e manifestazioni spontanee, e la prende anche in tutte le forme che la cultura ufficiale e popolare utilizzano, ossia attraverso i libri, i fumetti, i manifesti, la fotografia, i film, la radio… Ma è proprio percorrendo questo materiale eterogeneo, di cui la mostra testimonia in modo generoso, che si scorge il nesso ormai evidente per la nuova sinistra tra analisi delle condizioni di dominio, rivendicazioni politiche e espressione della propria soggettività. Oggi il modo di produzione post-fordista celebra la creatività di massa e assegna ad ognuno il compito di trarre il massimo profitto dalle proprie potenzialità. Siamo tutti blocchi di capitale umano deambulanti, e dobbiamo “metterci a profitto”. All’inizio degli anni Settanta, l’esigenza espressiva, ossia la necessità d’inventare in parte il linguaggio della propria protesta al di là delle forme culturali ereditate, era una necessità politica, in quanto solo una parola inedita poteva permettere a dei nuovi soggetti di accedere allo spazio politico. Inoltre la sperimentazione di nuovi stili di vita e di comunicazione era connessa con l’analisi degli ambienti concreti, entro cui individui e gruppi venivano confinati dalle esigenze di riproduzione sociale. Non solo di libertà si parlava, ma anche dei dispositivi di dominio di cui si era (stati) vittime, o di cui ci si trovava complici. Ognuno è stato chiamato a fare un lavoro da etnografo nei confronti della propria cultura, sottoponendo a indagine radicale le istituzioni più sacre, guardandole così al di fuori di ogni familiarità e ovvietà.

Negli anni Ottanta non è solo la frontalità delle lotte a dissolversi, ma anche quello sguardo etnografico, che considerava l’indagine delle forme di condizionamento un aspetto indissolubile della rivendicazione di una nuova soggettività. Ciò che emerge in primo piano in Francia è ormai una festa dell’anticonformismo, dove si confondono stili di vita underground e esibizionismo del jet-set. Il luogo esemplare di questa metamorfosi è probabilmente il “Palace”, locale parigino in cui il mondo dello spettacolo – cinema, moda, tv, musica, arte – mette in scena se stesso e dove le celebrità condividono per una notte lo stesso ambiente festivo con una folla anonima ma creativa.

I gesti, anche se provocatori e di rivolta, si sciolgono ormai dai contesti sociali che li avevano generati, e cercano di trovare consistenza altrove, non nell’unico mondo condiviso che i tanti collettivi pretendevano modificare, ma in zone protette, in momenti circoscritti. La rivoluzione del 1968 ha fallito, i collettivi si sciolgono, alla lotta si sostituisce la festa, al rivoluzionario il dandy, il capitale ritrova salute e maggiori profitti. D’altra parte, e questo gli anni Ottanta in Francia così come in Italia lo dimostrano, “nulla più sarà come prima”: uno spirito libertario sopravvive alla svolta degli anni Ottanta, e il ritorno all’ordine non potrà più essere quello delle società europee degli anni Cinquanta.  (Articolo di Andrea Inglese)

La Mostra è alla maison rouge, 10 bd de la Bastille, 75012 Paris fino al 21 maggio 2017