In margine all’intervista pubblicata su “la repubblica” (11 maggio 2014), “Luisa Muraro: ho lottato con amore per le donne ma l’egoismo è la mia vera forza”*Chapeau. Da {{Luisa Muraro}} ho imparato molto, come penso tutte noi. Ma non ho mai condiviso la sua concezione dell'{{autorità femminile}} e, in generale, dei rapporti di forza (in “dio è violent” ha ricusato la debolezza della nonviolenza). L’autorità (ma perfino i molti distinguo dell’autorevolezza) comporta l’accettazione della gerarchia. E la prima delle gerarchie riconosciute è quella uomo/donna, da cui derivano tutte le altre, compresa quella maestro/allievo.

Riconosco di essere io stessa, contro ogni mia deliberata volontà, “autorevole” e può darsi perfino autoritaria nell’esprimere opinioni che mi appassionano; ma {{non è pensabile farle diventare dottrina,}} per i possibili ri-pensamenti conseguenti la ricerca e il confronto. Certo mi irrita chi si sottrae al dialogo perché polemico per partito preso (partito preso può pur sempre nascere dall’incapacità di farsi capire); forse, per quello che mi riguarda, c’entra mia madre che non me ne lasciava passare una (e favoriva il viceversa).

Comunque, proprio a partire da me, {{mi fa un gran piacere che Luisa si definisca }} {{“egoista”}}, nel senso che uno non può che essere quello che è, compresa la quota di narcisismo che per natura ci tocca (“un modo per salvarci”). Forse anch’io do l’impressione che mi ha sempre dato (e che continua a darmi) lei: per questo persevero nella mia {{valorizzazione della debolezza come dote degli umani}}; siamo uguali proprio perché all’origine siamo esserini sbattuti al nascere inermi e inoffensivi, destinati a morire senza aiuto esterno (ma spero che la madre non sia solo ” animata da una potenza autoaffermativa che non va a scapito dell’altro, della creatura piccola”).

Di qui per me parte la contestazione dei pregiudizi che “ci fanno” superiori o inferiori: se ci relazionassimo sempre, tutti con tutti, su un piano di reciprocità, ci accorgeremmo di non aver mai insegnato senza imparare da quelli e quelle che, come figli, educhiamo o a cui, per mestiere, insegniamo.

Comunque, {{d’accordo finalmente sulla sconfitta di quello che chiamammo “femminismo”}} come se fosse stata la prima volta che le donne prendevano la parola. {{Non era “un sogno irrealizzato e irrealizzabile”.}} Solo che non toccava ancora alla nostra generazione: non ci siamo accorte di essere state {{minoranza,}} di aver trascurato le ragazzine di quindici anni che cambiavano linguaggio e le pensionate di settanta, che non sentivano alcun empowerment dalle nostre lezioni.

Né il femminismo ha mai cercato di essere politico, nel senso di inserirsi nelle condizioni reali di donne che nel lavoro o nella cosiddetta famiglia hanno sempre incontrato (e incontrano) le contraddizioni culturali e sociali che finiscono (o incominciano) nel femminicidio o nella mancanza di diritti. Le filosofe – che giustamente facevano il loro mestiere – non riescono ancora a capire come mai (e dentro a quale problematica) le ragazze debbono tornare a parlare dell’aborto.

D’altra parte “fummo una generazione fortunata… che non ha conosciuto il fascismo e non è stata bastonata dalla crisi”: forse è vero per molte, per le nostre figlie. Ma chi è del 1940, come molte maestre del femminismo, quando andava alle elementari il paese tentava di uscire dal tunnel del dopoguerra con sforzi immani e ancor pochi diritti: storie dure, credo, anche nella provincia veneta che diventava democristiana.

In ogni caso, oggi va bene ricominciare dal livello critico, anche autobiografico. A patto di cercare di spostare le diottrie: abbiamo guardato lontano e dobbiamo, {{senza diventare presbiti,}} guardarci attorno come quando Luisa “andava dritta contro la società degli uomini” e si interessava delle “loro” cause. Cercare di fare politica a modo nostro. Purtroppo, ancora una volta nel contesto dato (non da noi).

*http://www.repubblica.it/cultura/2014/05/12/news/luisa_muraro_ho_lottato_con_amore_per_le_donne_ma_l_egoismo_la_mia_vera_forza-85907256/