maxresdefault-1-768x369La scuola non esiste finché non ci sono insegnanti a farla in pari dignità e consapevolezza. Ma molt*, lo sappiamo bene, fanno di tutto per calpestare chi mette al centro dignità e consapevolezza. Si tratta allora di non smettere  di essere comunità, di non girare il capo, di accogliere fragilità, di coltivare stupore ogni giorno. “Sento di dirvi di non lasciarvi rubare la scuola, il suo senso profondo, da chi a diversi livelli ci sgoverna… – scrive in questo splendido saluto alla scuola, Rosaria Gasparro, maestra, dopo quarant’anni di insegnamento – Voi che la scuola continuate a farla, fate che sia buona davvero…”

Questa la lettera di Rosaria Gasparro da Facciamo Comune Insiemefacciamocomuneinsieme

Dopo l’anno più difficile della mia carriera, l’anno del disamore, il primo della 107 e l’ultimo per me (leggi anche Lascio), sentivo il bisogno d’incontrarvi in uno spazio aperto che fosse nello stesso tempo intimo, fuori dalla scuola che non mi appartiene più, che mi è estranea nel suo apparato di potere e divisione.

Uno stare un po’ insieme per lenire il senso di solitudine e di umiliazione a cui siamo esposti, per ricordarci di essere comunità da cui non doversi guardare le spalle, per testimoniare un’appartenenza per quanto fragile ad un ruolo a una funzione ad una condizione, che è professionale ma è prima di tutto umana.

Una restituzione di vicinanza tra colleghi, quelli che si collegano gli uni agli altri in un legame paritario, tra eguali che son diversi, che condividono la responsabilità dei fili da collegare, che sentono la reciproca solidarietà che a volte diventa amicizia e affetto. “Collega” è una bella parola, degradata nel suo uso improprio da invidie e volontà di potenza, dalle mediocrità che trovano spazio in ognuno di noi in cerca di visibilità, protezione e merito, a favore e a scapito. Recuperiamola nel suo significato più alto, quello più degno, di condivisione, di un agire onesto senza delazioni e gerarchie, perché di camminare insieme poi si tratta, piaccia o no.

Collega è la misura che non si sceglie, quella che capita, con cui fare i conti o su cui contare, a volte è intesa ed è fortuna, a volte fa male. Rammendiamola nei buchi questa parola, negli strappi che si verificano, quando viene compromessa, quando sembra perduta, quando sa di veleno. Questo ci tocca, con la precauzione della sfiducia.

Sento di dirvi di non lasciarvi rubare la scuola, il suo senso profondo, da chi a diversi livelli ci sgoverna. I capi passano e il senso resta. Lo so, è facile dirlo per me che non genererò più tempo né azioni in ciò che dichiaro, ma credo che la scuola non esiste finché non ci sono gli insegnanti a farla in pari dignità e consapevolezza. Siamo noi insegnanti che diventiamo nel bene e nel male degli indimenticabili, siamo noi che rispondiamo del senso in cui stiamo andando, che facciamo comunque sempre delle scelte di campo anche quando non ci esponiamo, anche quando restiamo in silenzio, quando dall’altra parte giriamo il capo. Che di diventare umani, poi, si tratta. Un’umanizzazione continua di noi stessi per coltivare l’umanità degli altri. Perché siamo fragili ed eguali ai bambini davanti alla verità e all’errore, davanti al bene e al male, come diceva Adolphe Ferrière.

Ci siamo incontrati via facendo, con alcuni di voi ho percorso tanta strada insieme, ci siamo costruiti un pezzo e un passo per volta, per questo serviva una strada per continuarlo a fare. D ’altronde io mi sono sempre sentita una sottospecie di maestra di strada, una maestra a bassa definizione con uno strumentario povero e leggero, esposta al rischio, all’imprevisto, all’avventura, disponibile all’incontro, alla meraviglia. Un’opera aperta, incompiuta, perché si sa che la vera strada non c’è, la strada si fa camminando. Ed io, come qualcuno sa, fra le due strade che divergevano nel bosco, presi quella meno battuta, e questo ha fatto tutta la differenza. A viso aperto è stato il mio modo, incontrando spesso quello che Marina Cvetaeva definiva la sbiechità umana, e soffrendone.

E questa è la mia ultima lezione d’ignoranza, una parola da sdoganare dalla sua accezione negativa, una pratica liberatoria e creativa che parla del fascino dell’ignoto, della passione per ciò che è sconosciuto. Ogni cattedra di conoscenza è sempre una cattedra d’ignoranza. Una è il confine dell’altra. A conclusione di un percorso durato più di quarant’anni, mi sento di confessarla tutta la mia ignoranza consapevole, in contrapposizione con tutti gli spacciatori di meriti e competenze, affermare il sapere di non sapere, il modo più umile e umano per smantellare le false convinzioni su cui appoggiamo le nostre vite. Una vocazione d’amore che lascia aperte le domande su se stessi e sul mondo, consapevoli che

“se la conoscenza è forza, è anche vero che il mistero possiede una dolcezza speciale”.

Custodiamolo questo mistero e coltiviamo lo stupore.

A me accadde che la poesia venne a cercarmi, direbbe il poeta, e mi invitò ad abitare poeticamente il mondo, non so da dove sia uscita, dai mandorli o dal vento, ma da una strada mi chiamava… Ed è con una poesia di Erri De Luca che vi saluto:

“Ricorda che sei polvere: d’accordo.
Se però posso scegliere di cosa:
non dell’oro, non della conchiglia,
ma polvere di gesso
di una parola appena cancellata
dalla superficie di lavagna.
E intorno un’aula di scolari applaude
la fine della scuola”.

Voi che la scuola continuate a farla, fate che sia buona davvero.