Per un approfondimento del dibattito dopo le ultime scelte governative sul testamento biologico, la redazione del Paese delle donne riprende e rilancia questo contributo pubblicato nel Forum tematico Pd Scienza, società e ricerca il 5 febbraio 2009. {{L’umano verso il non umano}}

La contrapposizione dualistica tra natura ed artificio, ci accompagna dall’antichità. La definizione del confine categoriale, però appare complessa e sempre meno praticabile in relazione agli artifici contemporanei. Certamente si può dire che {{l’artificio è teleologico}}: ha in se il suo progetto d’uso, mentre {{il naturale trova il suo significato nella storia pregressa}}, che lo ha determinato a ragione delle compatibilità possibili. Inoltre, la collocazione di una data entità nell’ordine naturale o in quello artificiale si può trasformare nella sua legittimazione oppure nella sua messa in discussione, in relazione ai valori che si annettono ad ognuno di tali ordini di cose.Proprio quest’ultimo aspetto ha fatto sì che la conoscenza scientifica sia stata proclamata neutrale, sulla base di una connotazione puramente epistemologica del suo operare, affidando la tecnologia, ed il suo uso, alla dimensione dell’artificiale.Tuttavia, le connotazioni della scienza post-accademica non consentono più questa suddivisione di compiti, nè lo consentono le più recenti conoscenze scientifiche e filosofiche.

Per rendere giustizia alla storia, dobbiamo ricordare che la ricerca di una continuità tra questi mondi ha appassionato scienziati, filosofi, studiosi dell’arte, anche nel passato. Basti ricordare che, {{agli albori del collezionismo dei grandi signori del 500}}, la classificazione degli oggetti delle Kunstkammer li inquadrava in forme naturali-forme antiche (fossili)-opera d’arte-macchina.Continuità che {{oggi}} trova la sua massima espressione nell’affermazione che {{“La natura dell’uomo è l’artificio”}} ({{Emmanuel Mounier}},1905-1950). Che cosa, infatti, distingue la nostra specie dalle altre se non la capacità di fabbricare strumenti, per plasmare la natura? Non diceva forse Bacone che la natura delle cose si mostra più per gli interventi dell’arte che per libertà propria?

Mounier apre {{uno squarcio inquietante}} su un tema che percorre la vita e la cultura contemporanee. Inquietante, perché anticipa con grande lucidità sia il tema dell’umanità che teme quello che essa stessa crea, sia quello del controllo della tecnica e della necessità di essere liberi rispetto ad essa, piuttosto che di farsene subalterni. Il testo si rivela però non pessimista, perché rivendica all’autonomia e alla libertà, una capacità di saggezza anche di fronte alle esperienze più inedite. L’autore, cattolico, riconcilia cristianesimo e scienza, e la messa a tema di questa non-conflittualità suona sorprendente per chi, invece, si confronta oggi con pronunciamenti di condanna, drastici e restrittivi. Egli scriveva nel 1949 “La crisi delle credenze è la conseguenza del crollo massiccio e quasi contemporaneo delle due grandi religioni del mondo moderno: il cristianesimo ed il razionalismo.”

Non pensava certo che di questa crisi si sarebbe continuato a discutere 60 anni dopo. La {{post-modernità}} ci mette a confronto con affannose ricerche di “credo” (si pensi a tutto il pensiero new-age) ed a deliri scientifici di onnipotenza.

La post-modernità si caratterizza per quel passaggio da una rivoluzione industriale, a cui abbiamo saputo dare senso ed in cui ci siamo saputi orientare, anche se con riferimenti opposti, ad una rivoluzione che non sembra sedimentare, nelle sue continue innovazioni, un presente che ci consenta di riflettere ed accostumarci. Il futuro diventa immediatamente passato, e da qui deriva uno spaesamento che determina appunto l’angoscia ed il disagio a cui fa riferimento Mounier. L’essere, gettati nel mondo (usando l’efficace immagine di {{P. Ricoeur}}) fa si che si stenti a vedere sponde di approdo: l’individuo, inghiottito dalla complessità del contemporaneo, si affida ad un pensiero debole, che chiede di rinunciare agli assunti forti del passato (peraltro difficilmente riproponibili). La secolarizzazione ha spostato concetti teologici sul terreno della laicità, l’individuo si riappropria del suo destino in un’immanenza che non lo aiuta a darsi una misura di sé e, quindi, determina la destrutturazione e l’implosione del soggetto stesso. Il tempo del progresso si trova ad essere demistificato nei suoi significati forti ed ineludibili e si trasforma in un accadere (secondo {{Vattimo}}). Le tradizioni non ci parlano più, anche se una loro rilettura critica ci può aiutare a costruire interpretazioni inedite dell’attualità. Resta la scienza, ad avere una radicalità nel reale, che però risulta difficile da cogliere (data la sua estrema specializzazione e la continua accelerazione della produzione di conoscenza). Non è un caso che sia così, visto che siamo chiamati a misurarci col virtuale e l’immateriale, anche sottoforma di beni di consumo. In tale contesto è necessaria una grande mobilità di relazione e una profonda trasformazione delle coscienze: le responsabilità delle scelte sono scaricate sui singoli individui, con la conseguenza di una de-sincronizzazione generalizzata, che rende impossibili previsioni sul futuro.

{{Arnold Gehlen}} ({{L’uomo nell’era della tecnica}}, Armando editore, 2003) sottolinea, infatti, l’impossibilità dell’etica di confrontarsi con la tecnica, perché quando la prima si interroga la seconda è già oltre il limite. L’umanità che sperava di essere liberata dalle sue sofferenze dalla tecnica è oggi prigioniera di essa e la morale viene ridotta ad assumere il disperato ruolo di chi deve continuamente intralciare l’efficace, l’attuabile e il funzionale.

La tecnica non riesce a soddisfare il “bisogno fondamentale” di sicurezza dell’essere umano: Siamo costretti ad una continua vigilanza, a perseverare in una specie di allarme cronico per verificare su un piano di controllo e su un piano etico il mondo circostante ed il nostro stesso agire, anzi ad improvvisare di ora in ora decisioni fondamentali. E tutto ciò entro uno scenario costituito da primi piani, sfondi, personaggi e parole d’ordine mobili e cangianti. In tali condizioni non si lascia più realizzare quel minimo indispensabile di equilibrata conformità di cui abbisogna ogni società umana; perciò la divergenza dei pareri pratici, tecnici, morali e razionali diviene tale da non consentire più la comprensione reciproca…

{{Gunter Anders}} ne “{L’uomo è antiquato”,} ci aiuta a capire ancora meglio cosa è successo in questa nostra epoca, esplorando quel salto sociale, culturale ed antropologico, sulla cui traiettoria siamo ancora in bilico. Anders scriveva, sempre negli anni settanta (anche se il suo libro è stato pubblicato solo nel decennio successivo), di una rivoluzione industriale (già avvenuta), di una rivoluzione dei consumi (in corso) e di una seconda rivoluzione industriale (ai suoi inizi) che avrebbe spiazzato {l’homo sapiens}, lo avrebbe spostato nei ripostigli della storia. Le nuove tecnologie irrompenti nello scenario della storia, lo avrebbe privato del suo ruolo di entità sociale e morale ed avrebbero limitato autonomie e libertà di scelta. I poteri forti, infatti, avrebbero usato queste stesse tecnologie per esercitare il controllo sulle masse in maniera più pervasiva e profonda.

Ritorniamo alla scienza: si è detto che essa non fornisce più certezze, ma soprattutto è ormai chiaro che {{conoscere di più non equivale a maggiore controllo della realtà, naturale e non}}, in cui viviamo. La tecnologia ha dilatato gli spazi, anche oltre i confini del mondo, e ridotto il tempo a quello reale. L’individuo, collocato in queste nuove dimensioni, non può che galleggiare in superficie ({{il surfacing di Bauman}}): il futuro è {{frammentato e pieno di incertezze,}} la complessità dei problemi rende problematica ogni previsione. Inoltre un’altra considerazione appare inevitabile: le conquiste del sapere non hanno impedito il ritorno alla barbarie, anzi!

{{Gli aggregati uomo/macchina}}

Non solo la tecnologia fornisce nuovi strumenti, ma legittima nuovi profili di comportamento, assetti istituzionali, processi culturali che non vengono sottoposti al vaglio di legittimità, in quanto “neutri” prodotti della ragione. L’oggettività del sapere tecnico ha acquisito uno status di verità tale da espungere altre forme dell’esperire umano: si tende ad oggettivare anche i saperi umanistici, sterilizzandoli rispetto a quegli aspetti che si sottraggono alla quantificazione o presentano le caratteristiche impalpabili di sensazioni, emozioni, passioni.L’assunzione del sapere tecnologico a verità e paradigma costitutivo della cultura post-moderna è ardita, bisogna ammetterlo, ma ha avuto successo: basta pensare come anche la Chiesa si appelli ai dati scientifici per difendere valori di carattere teologico.

In {{assenza di utopie}}, le visoni tecniche del futuro rendono impossibile e dissolvono ogni sapere sociale. L’esperienza, da cui il sapere sociale deriva, non è più un dato, un patrimonio a cui attingere, ma un percorso da fare.

La tecnologia produce anche una sorta di de-corporeizzazione dell’esperienza, la costringe in astrazioni matematiche, neutralizzando le emozioni e le ragioni che ne fanno parte essenziale. Anche {{W. Benjamin}} aveva previsto che nell’era moderna l’esperienza sarebbe stata condannata all’atrofia, in quanto si sarebbe affidata alla mediazione tecnologica delle macchine e dei relativi assetti organizzativi.

La nostra società sarebbe diventata una società astratta, essendo il contingente umano e corporeo, estromesso.Non a caso, ci si trova anche privi di un linguaggio adeguato: esistono dei veri e propri vuoti concettuali nella rappresentazione della realtà, che rendono difficile la comunicazione e quindi la costruzione di un sapere sociale. La merce virtuale, a cui il mercato si affida in gran parte, non ha linguaggio che la rappresenti efficacemente. {{Baudrillard}} nel 1970 aveva avvertito che lo scambio di segni invece che di oggetti avrebbe modificato il mercato e vanificato le teorie sul capitale di Marx, dei bisogni di Heller etc: il principio di simulazione avrebbe preso il posto del principio di realtà.

{{L’arte contemporanea}} trova in questo contesto la sua nuova forma: essa non risponde più al canone del bello, ma rappresenta e si fa interprete della realtà. L’aspetto estetico è dismesso in nome di un aspetto semantico immediato e talvolta esasperato, che mira a farci cogliere la nuda essenza di quello che ci sta intorno.
Attraverso i media, assistiamo a morti violente, civili e di guerra, a sofferenze inferte con gratuità quotidiana, come ad uno spettacolo astratto che si svolge nella nostra mente, che assume forme virtuali, perché privo di suoni, odori, percezioni reali. Il corpo non partecipa della realtà. I sensi sono esautorati da uno scenario che è percepito come estraneo. Ne consegue che le emozioni ed i sentimenti sono sopiti. La mente non elabora impulsi e pensieri veri di con-divisione con le vittime, non vengono prodotti pensieri passibili di azioni reali e concrete di aiuto, perché non vediamo, udiamo, tocchiamo, sentiamo gli odori, i suoni, le forme del dolore reale.

{{Il virtuale}} ci sta privando della padronanza del nostro essere qui ed ora. D’altro canto virtuale sta ad indicare qualcosa che ancora non è.
Il corpo è, in qualche modo, oggetto estraneo (esterno) a noi stessi e non veicolo della nostra partecipazione della vita, dei suoi odori, rumori, della sua fisicità e di quella degli altri.

Eppure, la ricerca stessa ci ha insegnato che l’identità si forma essenzialmente attraverso {{la relazione che la nostra progenie stabilisce col mondo dai primissimi attimi di vita}}, fatta di ambiente appunto e di persone, con cui si deve interagire. Non a caso si usa per chi nasce l’espressione “venire al mondo”. I sensi cominciano a funzionare, il cervello a registrare ed a rispondere, con tutta quella complessità di interazioni che rendono difficile la distinzione tra quanto viene dall’io e quanto dal mondo. La persona si forma e, con lei, il senso del bene e del male, della gioia e del dolore, del bello e del brutto. Ma, se il nostro corpo non è più interrogato attraverso i nostri sensi, anche queste altre cose, che chiamiamo etica, estetica, etc., non saranno più per noi.

Tuttavia il corpo, grazie alla tecnica, si trova ad avere a disposizione delle possibilità di amplificazione dei sensi, che annullano tempi e spazi, che ci introducono nell’infinitamente piccolo, come nell’infinitamente grande. Questo rappresenta indubbiamente un’amplificazione del nostro esperire, ma può anche rappresentare {{la transizione verso una diversa natura umana.}}

Non è peregrino porsi questa domanda, visto che {{siamo chiamati a misurarci col virtuale e l’immateriale,}} anche sottoforma di beni di consumo. In tale contesto è necessaria una grande mobilità di relazione e una profonda trasformazione delle coscienze: le responsabilità delle scelte sono scaricate sui singoli individui, con la conseguenza di una de-sincronizzazione generalizzata dell’esperire, che rende impossibili previsioni sul futuro di una possibile collettività. Un’altra intermediazione è venuta a mancare, a spiazzare il corpo definitivamente ed è quella del confronto dell’io con l’altro, il tu, in cui il corpo si manifesta con altrettanta prepotenza che la mente.

Scrive {{Adriana Cavarero}}:”è il tu che viene prima del noi, prima del voi, prima del loro. Sintomaticamente, nelle vicende moderne e contemporanee dell’etica e della politica, il tu è invece un termine spaesante. …… Il noi è sempre positivo, il voi un possibile alleato, il loro ha la faccia dell’antagonista, l’io è sconveniente ed il tu, appunto, superfluo”.

Di questi tempi {{i soggetti sono sempre plurali}}: più facile essere noi e voi, somma di corpi col minimo comune denominatore della forza fisica (della sopraffazione, aggiungerei) e del pensiero unico, col minimo comune denominatore della banalità.

{{Implicazioni Politiche}}

Che ne è dunque della vita dell’individuo in questa società? Diventa ricorrente il richiamo ad Aristotele ed al suo concetto di phronesis inteso come venire a patti con la realtà, o in una versione più estetica, come arte del vivere.

Nella dimensione individuale, sul {{rapporto tra il sè e l’azione scelta}}, predomina l’importanza di una decisione veloce, il soggetto dunque si confronta con la responsabilità come dimensione non separabile dall’azione. I conflitti morali trovano, dunque, collocazione all’interno del sè morale. In questo non lo soccorre, come abbiamo detto, l’esperienza, ma nemmeno risorse sociali o culturali per costruire scelte morali. La modernità ha, infatti, segnato anche la lontananza della vita sociale dal dominio del dovere (Lipovetsky: Le crepuscule du devoir).

La giustizia nella società moderna è spogliata di ogni illusione utopica, ci si presenta come {{un processo}}, piuttosto che come una condizione realizzabile. Le pratiche etiche, infatti, possono nascere dal vivere di tutti i giorni a contatto con persone in carne ed ossa: è questo il solo modo per contrastare la de-corporeizzazione dell’esperienza prodotta dalla tecnologia. Siamo ora nel territorio della biopolitica, parola coniata da Foucault: ed è di questa che le forze politiche dovrebbero occuparsi con un minimo di avvedutezza.

Troppo fortemente, {{i partiti democratici e riformisti si tengono ancora aggrappati al concetto della scienza come fonte di certezze e verità}} e tendono a contrapporre la razionalità alla fede. Abbiamo spiegato come non sia più così, ma vogliamo aggiungere che avvalersi della scienza come fondamento della cultura laica può portare a pericolose semplificazioni. I valori condivisi nascono da comuni e sofferte esperienze, storiche e quotidiane, di vita collettiva ed individuale. La razionalità scientifica può fornire, con i suoi elementi di conoscenza acquisita, dei riferimenti importanti alla valutazione del bene e del male, del giusto e dell’ingiusto, ma non può esaurire in sé le possibili risposte.
Storia, emozioni, saperi ed esperienze di natura diversa concorrono a formare il giudizio morale ed a queste bisogna ispirarsi per immaginare un’etica possibile per la nostra epoca. Alcuni valori, parte integrante della storia dell’occidente, vanno riaffermati nelle forme nuove che la società tecnologica richiede.Basti pensare a come siano giornalmente sfidati il rispetto del corpo umano (Habeas corpus), della persona data, della vita personale e privata, la stessa convivenza civile (e le sue declinazioni in termini di uguaglianza, solidarietà, libertà).

Limiti vanno necessariamente posti laddove tutti questi principi vengono violati e non resta difficile capire dove questo avvenga, quando si parla dell’invasività di pratiche biomediche in scelte del tutto personali e private, o quando si pensi alla subalternità a sistemi elettronici, il cui controllo completamente ci sfugge. Un secondo punto di debolezza della politica risiede nell’enunciato di {{scienza=progresso}} (tenendo conto che oggi con esso si intende, in realtà, {{tecnologia =innovazione}}). Ebbene, innanzitutto {{le due proposizioni non si equivalgono}}: la prima racchiude in sé ancora un concetto nobile di ampliamento del sapere, pur essendo ormai chiaro che la risoluzione in un progresso non sia necessariamente data.Manca, infatti, una definizione condivisa di progresso: sono sempre di più coloro che pensano che esso non debba essere valutato solo in termini economici e materiali della qualità della vita. E` a questo che fa esplicito riferimento la seconda equazione, laddove innovazione sta ad indicare produzione di nuovi prodotti o nuovi processi. Innovare è il nuovo “must”, indipendentemente da contesti socio-culturali, da possibilità reali di utilizzo partecipato, di miglioramento effettivo delle condizioni di vita e di relazione. Innovare è un termine che vive di se stesso, nessuno chiede da dove si parte e dove si vuole arrivare, se sia buono e giusto, se siamo pronti ad affrontarne le inevitabili ricadute, positive o negative che siano. Siamo di nuovo di fronte ad un’idea pericolosa delle {{coscienze intese come tabula rasa}}: ma crediamo realmente che il nostro corpo/mente possa reggere il nuovo, tutto e subito?

Si apre allora {{il problema della subalternità alla tecnica}} che si presenta a noi attraverso le molteplici facce della società dei consumi. E`proprio la tecnica che ha prodotto la novità della realtà virtuale che in molti casi, ha svuotato, di senso il reale ed ha traslato significati, privandoli della loro essenza profonda. Il consumo di beni virtuali, come i reality show, in cui rientrano anche corpi e vite di gente comune, derubata della propria privacy, illustra bene questo aspetto. Ma altre forme più sofisticate di consumi etero-diretti e non controllabili, sono ormai oggetto di attenzione da parte di studiosi e analisti della società post moderna e spiegano molti degli aspetti di fragilità e inconsistenza degli individui.

Lo sfruttato del terzo millennio è {{il consumatore}}, privato di capacità decisionali, da una tecnica che anticipa e condiziona le scelte, che crea scenari immateriali in cui l’individuo crede di collocarsi liberamente, ma in cui rischia di essere catturato da soggetti od entità, non direttamente identificabili, che potranno usarlo a loro piacimento. La paura dell’ignoto, che ci spinge, come già avviene, a trovare capri espiatori nelle vittime di sempre, e specularmente l’aggressività che caratterizza ormai molti comportamenti, si originano proprio in quelle scelte/non-scelte che ci troviamo ad operare in ogni attimo della nostra esistenza, senza gli attrezzi necessari a capire cosa realmente stiamo facendo.

La democrazia non può che ripartire dalla presa d’atto di questi pericoli e dall’acquisizione della consapevolezza che {{ciascuno può ancora riservarsi delle scelte}}, se evita di essere un passivo utente di ciò che gli viene offerto. I soggetti dunque del processo democratico sono coloro che insistono, come gli operai di una volta, nella volontà di prendersi i propri corpi e le proprie vite per gestirli con consapevolezza. La paura stessa si può superare ricostruendo legami sociali, ridefinendo il concetto di autonomia individuale, esaltando la definizione di questa nella relazione con l’altro.