Il colonialismo italiano è una delle pagine più nascoste della storia italiana. Il mito degli “italiani brava gente” nelle colonie dell’Etiopia, Eritrea, Libia, Somalia, è servito a nascondere massacri, deportazioni, stermini, leggi razziali. Come sottolinea Nicola Labanca nel suo libro {Oltremare. Storia dell’espansione coloniale italiana}, Il Mulino, Bologna 2002, è negli elenchi stradali italiani che permane il ricordo – altrove rimosso – delle imprese coloniali dell’Italia unita: una piazza Adua, un corso Tripoli o una via Mogadiscio, sono frequenti nella toponomastica non immemore delle nostre città.
_ Più difficile sembra, invece, trovare qualcuno/a capace di spiegarcene il senso.
_ Ai più sfugge, ad esempio, il legame tra una “via Libia” – che a Bologna costeggia un quartiere familiarmente detto “della Cirenaica” [[1 – La Cirenaica, insieme alla Tripolitania, è stata una delle regioni libiche che ha maggiormente subito l’invasione coloniale italiana
]] – e i ripetuti tentativi di “conquista” di queste terre da parte dell’Italia liberale prima e di quella fascista poi.

Chi ricorda la spietata rappresaglia italiana all’indomani della sconfitta subita a Sciara Sciat (villaggio alle porte di Tripoli) ad opera dei ribelli libici nel 1911, la “caccia all’arabo” che si scatenò tra le vie della capitale con impiccagioni collettive nella centrale Piazza del Pane e deportazioni di massa verso l’Italia che durarono almeno fino al 1916?
_ Qui (nelle prigioni delle Isole Tremiti, di Favignana, di Gaeta, di Ponza, di Ustica…) coloro che non erano morti nella traversata, morirono in gran numero per le condizioni inumane di prigionia, le malattie non curate, il lavoro forzato e i maltrattamenti.
_ A tutt’oggi, scrive Angelo Del Boca, “ci sono famiglie in Libia che vorrebbero almeno sapere dove sono sepolti i loro cari” [[2 – Angelo Del Boca, Italiani, brava gente?, Neri Pozza Editore, Vicenza 2005, p. 115
]].
_ E chi ricorda – ancora –, durante la “riconquista” della Libia negli anni 30, le rappresaglie, le distruzioni sistematiche, le deportazioni di massa di civili (che causarono 60.000 morti nella sola Cirenaica, anche bambini/e), l’impiccagione, tra gli altri, il 16 settembre 1931 – in spregio ad ogni convenzione internazionale – di Omar el Mukhtar, uno dei capi della resistenza locale?
_ I responsabili di questi ed altri crimini dell’impresa coloniale italiana non hanno mai pagato. E credo non si possa più tollerare che a pagare siano – ancor oggi – le vittime, con un prezzo che si chiama oblio, cancellazione, rimozione.

Si chiama {{mito degli “italiani, brava gente”}}.
_ Un mito secondo il quale il colonialismo italiano è stato, a confronto di altri colonialismi coevi, buono, umano e tollerante. Un colonialismo, come scrive efficacemente Paola Tabet, “all’acqua di rose” [[3 – Paola Tabet, La pelle giusta, Einaudi, Torino 1997, p. VII
]].
_ Un mito talmente persistente che neanche i puntuali studi storiografici – a partire dall’opera pioniera di Del Boca alle importanti ricerche degli ultimi decenni di giovani storici e storiche [[4 – Impossibile fornire nel contesto di questo breve articolo, una bibliografia esaustiva. Mi limiterò a segnalare alcuni testi di Angelo del Boca, tra i quali i quattro volumi de Gli italiani in Africa orientale editi da Laterza (Dall’unità alla marcia su Roma, 1976; La conquista dell’impero, 1979; La caduta dell’Impero, 1981; Nostalgia delle colonie, 1984) e L’Africa nella coscienza degli italiani. Miti, memorie, errori, sconfitte, Laterza, Bari 1992; i testi di Giorgio Rochat, Il colonialismo italiano, Loescher, Torino 1973 e “L’impiego dei gas nella guerra d’Etiopia. 1935-1936”, in Rivista di storia contemporanea, n. 1, 1988, p. 74-109; il volume di Nicola Labanca, In marcia verso Adua, Einaudi, Torino 1993. Per quanto riguarda la lettura delle vicende coloniali italiane in una prospettiva di genere, ricordo il saggio di Gabriella Campassi, “Il madamato in A.O: relazioni tra italiani e indigene come forma di aggressione coloniale”, in Miscellanea di storia delle esplorazioni, XII (1987) e i volumi di Giulia Barrera, Dangerous liaisons. Colonial Concubinage in Eritrea, 1890-1941, Evanstone (Illinois), Northwestern University 1996 e Barbara Sòrgoni, Parole e corpi. Antropologia, discorso giuridico e politiche sessuali interraziali nella colonia Eritrea (1890-1941), Liguori, Napoli 1998. Vorrei inoltre ricordare, a quasi tre anni dalla morte, Riccardo Bonavita con il suo saggio “Lo sguardo dall’alto. Le forme della razzizzazione nei romanzi coloniali e nella
narrativa esotica”, in Centro Furio Jesi (a cura di), La menzogna della razza, Grafis, Bologna 1994
]] – , sono riusciti realmente a scalfire.

Più facile, o forse comodo, introiettare un mito che è insieme tranquillizzante e autoassolutorio piuttosto che farsi carico della consapevolezza di questo ingombrante passato che getterebbe, certo, una luce troppo inquietante sul presente [[5 – Mi sembra di poter cogliere un sintomo di questa rimozione anche nel linguaggio cosiddetto “critico” o “militante”, dove la tendenza – oramai consolidata – all’uso di metafore o immagini che rinviano al passato per descrivere o contestare il presente, solo in rare eccezioni trova nell’impresa coloniale italiana un utile serbatoio dal quale attingere. I recenti “rastrellamenti” di migranti sui mezzi pubblici in diverse città italiane come anche l’odioso atto di razzismo di un capotreno contro una passeggera migrante, hanno evocato il segregazionismo nell’America razzista del secolo scorso o l’aphartheid sudafricano, ma non la politica di segregazione razziale imposta dall’Italia fascista a partire dal ’36 nelle sue colonie africane
]].
_ Questo mito è frutto di un {{ lungo processo di rimozione}}, perseguito tra l’altro con tenacia già all’indomani della firma del trattato di pace di Parigi il 10 febbraio 1947 che privava per sempre l’Italia delle colonie, quando lo stato italiano anziché avviare un dibattito sul colonialismo, cercò di occultare e distorcere con ogni mezzo la realtà. Ne è un esempio la pubblicazione in cinquanta volumi, a cura del ministero degli Affari Esteri, dell’opera L’Italia in Africa. Spacciata come una sintesi e un bilancio delle presenza italiana nelle colonie, si rivela invece come una colossale mistificazione atta a esaltare i meriti della colonizzazione italiana.[[6 Cfr. Angelo Del Boca, “Gli studi storici e il colonialismo italiano”, prefazione a Enrico Castelli ( a cura di), Immagini&colonie, Centro documentazione del museo etnografico Tamburo Parlante, Montone 1998, pp. 7-8.
]]

Indubbiamente rispetto ad altri colonialismi coevi, il colonialismo italiano presenta alcune “diversità”.
_ Anzitutto l’Italia era stata unificata da appena un ventennio quando – fra il 1882 e il 1885 – fece le sue prime esperienze coloniali, che ebbero la loro fase culminante in anni in cui altre imprese coloniali dovevano già fare i conti con il processo di decolonizzazione.
_ Fu anche un’esperienza circoscritta nel tempo, poco più di 60 anni: dal 1882 in Eritrea, dal 1889 in Somalia, dal 1911 in Libia e dal 1935 in Etiopia e tutte potevano dirsi concluse nel 1943, come anche il “protettorato”in Albania e le colonie nelle Isole Sporadi meridionali (dette impropriamente Isole Egee), storia coloniale tra le più dimenticate [[7 – Nicholas Doumanis (1997), Una faccia, una razza. Le colonie italiane nell’Egeo, Bologna, Il Mulino, 2003
]].

Inoltre, rispetto ai ben più vasti imperi di altre potenze – si pensi all’Inghilterra o alla Francia – le colonie italiane erano anche circoscritte geograficamente, e più “povere”, quindi economicamente meno vantaggiose. Infine, fin dalle origini, il colonialismo italiano si caratterizzò per un’assoluta ignoranza del territorio e delle popolazioni che vi abitavano considerate barbare, inette e militarmente incapaci, sottovalutando di conseguenza anche le loro capacità di resistenza.

Queste le ragioni che portarono, ad esempio, alla celebre sconfitta di Adua, quando l’esercito guidato dall’imperatore Menelik II e dall’imperatrice Taitù Zeetiopia Berean – figura mitica di donna guerriera, che anticipa altre celebri resistenti come Kebedech Seyoum [[8 – A Kebedech Seyoum, splendida combattente durante l’occupazione fascista dell’Etiopia, Gabriella Ghermandi dedica una delle sue “storie” nel bellissimo Regina di fiori e di perle, Donzelli, Roma 2007
]] – infligge agli italiani quella che è unanimemente considerata la più grande sconfitta mai subita dai colonizzatori “bianchi” in Africa, intaccando per sempre “i reticolati del più vasto campo di concentramento della terra” [[9 – Angelo Del Boca, Gli italiani in Africa orientale. Dall’unità alla marcia su Roma, op. cit., p. 701
]].

Ma queste diversità non hanno determinato una minore “brutalità” dell’impresa coloniale italiana, come il mito degli italiani brava gente vorrebbe farci credere.
_ Semmai l’Italia, giunta in ritardo sullo scacchiere coloniale, poteva vantare su una lunga tradizione di “{{razzismo interno}}”, che trovò il suo culmine nella cosiddetta “guerra al brigantaggio”, che come ci ricorda Del Boca “fu anche ‘una guerra coloniale’, che anticipò, per le inaudite violenze e il disprezzo per gli avversari, quelle combattute in seguito in Africa. Non fu forse il generale d’armata Enrico Cialdini, luogotenente di re Vittorio Emanuele II a Napoli, a dichiarare: ‘Questa è Africa! Altro che Italia! I beduini, a riscontro di questi cafoni, sono latte e miele’?” [[10 – Angelo Del Boca, Italiani, brava gente?, op. cit., p. 57
]].

Latte e miele che non impedirono certo i massacri e le deportazioni, gli inferni delle carceri eritree – e tra queste la famigerata Nocra – il lavoro forzato in Somalia – chiamato dai Somali “schiavismo bianco” –, i campi di concentramento in Libia, l’uso massiccio di gas come fosgene e iprite – già vietati dalla Convenzione di Ginevra – per piegare la resistenza etiopica, la strage, tra le altre, di Debrà Libanòs o la feroce rappresaglia che si scatenò per le vie di Addis Abeba in seguito all’attentato, il 19 febbraio 1937 al viceré d’Etiopia maresciallo Rodolfo Graziani [[11 – Tre giorni di vera e propria “caccia all’uomo” (uomini, donne, bambini/e) che provocò, a seconda delle fonti, da un minimo di 1400 a un massimo di 30 mila morti
]].

Senza dimenticare la politica di segregazione razziale e di “difesa del prestigio della razza” imposta dal regime fascista in Africa a partire dal 36, con la proibizione assoluta di rapporti sessuali interrazziali nella cosiddetta colonia per maschi” [[12 – Giulietta Stefani, Colonia per maschi. Italiani in Africa Orientale: una storia di genere, Ombre Corte, Verona 2007.
]]. Un aspetto questo essenziale per un’analisi delle articolazioni – anche odierne – del sessismo e del razzismo.

L'{{immagine della donna “indigena”, esotica, disponibile e voluttuosa}} era stato uno dei cliché massicciamente diffusi nei primi anni della conquista coloniale italiana – anche attraverso una serie di cartoline che ebbero larga diffusione -, funzionando come una sorta di “richiamo erotico” per i colonizzatori, secondo la sovrapposizione simbolica della conquista sessuale con quella coloniale già collaudata in altri contesti nazionali.
_ Per i primi quarant’anni il cosiddetto {{madamato viene largamente tollerato mentre la presenza delle donne “bianche” in colonia è generalmente scoraggiata}} .

Ma a partire dalla proclamazione dell’Impero le “unioni miste” (sia nella forma del madamato che del matrimonio) cominceranno ad essere osteggiate fino ad essere proibite del tutto con il decreto dell’aprile 1937 e mentre la {{prostituzione subisce un’impennata la presenza delle donne “bianche” in colonia}} – come mogli, anche potenziali, dei “cittadini bianchi” – {{comincia ad essere incoraggiata fortemente}}.
_ In questo modo si realizza da una parte “l’ufficializzazione della percezione delle donne native come prostitute” [[13 – Barbara Sòrgoni, Parole e corpi, op. cit., p. 244
]] e dall’altra la celebrazione ulteriore della donna “bianca” come moglie e madre. Del resto queste ultime sono le uniche a poter accedere allo statuto di “donna”, le altre sono “femmine”, come scrive un ex colono italiano nelle sue memorie: “Femmine ce ne sono in colonia, nere esuberanti e generose; mancano le donne, le quali non possono essere che bianche” [[14 – bidem