Intervista a Ester Russo di Msf, che lavora a Trapani: “Li supportiamo, prima ascoltandoli e poi accompagnandoli per ritrovare soprattutto il valore delle relazioni e la fiducia in loro stessi”. Ma c’è anche chi si ammala nei centri: “Restano nel limbo per 2 o 3 anni senza fare nulla e subiscono un deterioramento cognitivo”

 “Dopo tante sofferenze e violenze subite i migranti riescono a rialzarsi proprio a partire dalle relazioni vere”. Ne è convinta Ester Russo, psicologa di Medici Senza Frontiere che opera a Trapani e provincia all’interno dei Cas (Centri di accoglienza straordinaria), nel primo soccorso psicologico nei porti durante gli sbarchi e presso l’ambulatorio di psicoterapia transculturale della Cittadella della salute di Trapani in collaborazione con l’Asp.

Da quante persone è composta l’equipe multidisciplinare di Medici Senza Frontiere di Trapani dedicata ai migranti?

Ci sono 4 psicologi, uno psicologo coordinatore del dipartimento di Salute mentale, uno psichiatra, 4 mediatori culturali (originari di Nigeria, Mali, Senegal e Costa d’Avorio) e due assistenti sociali. Nel nostro lavoro diamo priorità alla lingua madre del migrante che gli permette di raccontare meglio il suo stato di sofferenza. Proprio per questo risulta molto importante il supporto dei mediatori linguistico culturali. Il mediatore è un co-terapeuta perché ci traduce alcuni codici culturali di senso che altrimenti non potremmo capire. Se è necessario, nel caso di altri dialetti locali, chiamiamo mediatori culturali on-call provenienti da diversi paesi africani.

La sua esperienza all’interno dei Centri di accoglienza straordinaria?

In particolare, seguo tre Cas della provincia di Trapani dove sono ospitati uomini dai 20 ai 30 anni. Soprattutto nell’ultimo periodo sono arrivate persone con esperienze molto dure alle spalle di violenze, torture, detenzione e schiavitù di ogni tipo. Il disturbo post traumatico da stress di chi è stato in Libia per mesi può avere conseguenze diverse. Hanno molti disagi di tipo depressivo: ansie, disturbi psicosomatici, problemi gastrointestinali, dermatologici, forti cefalee. Li supportiamo, prima ascoltandoli e poi accompagnandoli per ritrovare soprattutto il valore delle relazioni e la fiducia in loro stessi.

Molti raccontano di torture?

Una tortura che subiscono molti di loro è la ‘falaka’ che consiste nel mettere la persona a testa in giù colpendo la parte centrale della pianta dei piedi con un bastone o una spranga di ferro. A seconda di quanto tempo hanno subito questo tipo di violenza il rischio è che possano avere un danno permanente ai piedi: il cuscinetto plantare non si riproduce più e nei casi più gravi non possono più correre,  stare in punta di piedi e possono addirittura avere dei dolori forti che si propagano fino alla parte alta delle gambe. In questi casi tramite l’Asp di Trapani abbiamo attivato un servizio di medicina legale che rilascia una certificazione sullo stato di disabilità acquisita. Certificazione medica che possono utilizzare nelle proprie richieste di asilo avviando anche la pratica per ottnenere eventualmente l’invalidità. Poi c’è anche la violenza sessuale sugli uomini, oltreché sulle donne.

Dentro i centri che succede?

Sicuramente c’è una fetta di persone che si ammala dentro i centri: si ammalano di quella che possiamo chiamare una ‘patologia istituzionale’. Ciò è dovuto alla lunga permanenza nelle strutture senza fare nulla. Rimangono per due anni, a volte 3 anni, in un limbo, impotenti, senza sapere cosa sarà di loro. In tutto questo tempo, in alcuni, avviene un vero e proprio deterioramento cognitivo. Fanno vedere la foto di quello che facevano prima nel loro paese perché non si riconoscono più e vogliono essere rassicurati. Allora cerchiamo di fare un lavoro delicato di memoria che permette attraverso la narrazione di ricordare chi erano prima del viaggio per capire quello che sono ora. Alcuni non chiamano più le famiglie perché si sentono ‘falliti’ visto che tradiscono le aspettative, perchè non possono aiutarle.

In che modo collaborate con gli operatori dei Cas?

Il doppio obiettivo è quello di lavorare principalmente per il benessere psicosociale degli ospiti e poi quello di coordinarsi con il lavoro che svolgono già gli operatori dei Cas. Ci si attiva insieme affinchè si diano delle risposte proficue e concrete ai migranti. Sono a volte gli stessi operatori che ci segnalano i casi di particolare vulnerabilità che richiedono una maggiore attenzione. Al termine del nostro lavoro, stiliamo un report conclusivo che viene consegnato all’equipe del Cas e poi in prefettura. Nel report, rilevando anche le buone prassi riscontrate, si danno anche delle indicazioni rispetto alla possibilità di migliorare la gestione e la relazione con gli ospiti.

Riguardo invece l’attività dell’ambulatorio di psicoterapia transculturale?

L’ambulatorio è aperto due volte a settimana. Un giorno si dedica a chi proviene dai paesi anglofoni e l’altro per chi è invece francofono o arabofono. Più del 50% delle persone che arrivano, uomini e donne, sono state vittime di violenze sessuali, maltrattamenti umilianti e degradanti e torture di vario tipo. Il fine è quello di collaborare fino al mese di giugno con le figure professionali dell’Asp affinchè poi lo gestiscano loro come servizio specializzato per i migranti. C’è una lista d’attesa costituita da pazienti inviati prevalentemente da noi durante il nostro lavoro nei Cas ma anche da altre realtà come Sprar e altre strutture. Proponiamo prese in carico di tipo psicoterapeutico e per chi ha problemi di natura fisica si attivano anche altri percorsi sanitari.

Nei porti di sbarco invece?

Interveniamo nel caso in cui è previsto uno sbarco di salme e ci sono persone in forte stato di stress psicofisico che hanno perso familiari. Sosteniamo il migrante con un primo approccio relazionale di emergenza. Durante gli sbarchi spesso il migrante si sente molto rassicurato dal mediatore culturale del suo paese che parla il suo dialetto e non porta nessuna divisa militare. Ascoltiamo persone deprivate di tutto, dagli affetti alla libertà personale. Alcuni hanno assistito a sparatorie mentre si mettevano in viaggio oppure hanno subito uno schiacciamento dentro il gommone oppure ancora hanno visto morire amici o familiari. L’obiettivo, in quelle poche ore di supporto psicologico di gruppo, è prima di tutto di rassicurarli, orientandoli verso i servizi di cui hanno bisogno. Nel caso di lutto il supporto psicologico è di tipo individuale. Ricordo lo sbarco a Lampedusa dell’ottobre 2016 in cui ci furono tantissimi morti. Con grande commozione tra i 27 superstiti dentro l’hotspot di Lampedusa, ho lavorato in particolare con delle donne che avevano perso i loro bambini; erano distrutte dal dolore, stavano malissimo e l’unico bisogno che avevano erano quello di essere abbracciate in maniera molto forte per lungo tempo.

Qual è la cura principale per i migranti?

La cura principale è la relazione. Di fronte ad una persona che ha perso tutto e anche quella idea di umanità che gli rimaneva offrire, oltre all’ascolto, uno sguardo, un sorriso, un forte abbraccio, restituendo anche l’importanza della sua appartenenza etnica è già tutto. Sono convinti di non potere più scegliere il destino da dare alla loro vita proprio per tutto quello che hanno subito. Facendo esperienza finalmente di vera umanità e attraverso un percorso graduale di fiducia e di autostima possono ritornare ad autodeterminarsi ed a essere persone. (set)