matrimoniCome abbiamo visto in occasione della splendida manifestazione del 26 novembre a Roma e nel dibattito del giorno successivo, tra i moltissimi gruppi e associazioni di donne in lotta per denunciare le violenze subite dalle donne ovunque nel mondo, è emerso quest’anno anche il drammatico tema delle violenze e degli abusi che le migranti richiedenti asilo sono costrette a subire nelle loro tremende odissee.

Si tratta infatti di una questione centrale per le femministe di oggi, come dice in questo appello Helen Pankhurst, nipote della celebre suffragetta Emmeline:

“Quando la situazione di una donna è così disperata che è costretta ad impegnarsi in ‘sesso di sopravvivenza’ per garantirsi una protezione maschile per il suo viaggio, questa è una questione femminista. Quando una donna è costretta ad arrancare per centinaia di miglia a piedi, pesantemente incinta e con bambini malnutriti in braccio, questa è una questione femminista… quando le donne abortiscono sul ciglio della strada in un paese sconosciuto; quando le madri sono costrette a mandare i propri figli non accompagnati sui gommoni nel buio, per niente sicure di poterli rivedere vivi; quando le donne che stanno raggiungendo il Regno Unito sono maltrattate e umiliate, o detenute durante la gravidanza per il reato di richiedere asilo: queste sono questioni femministe. Urgenti, disperate, scandalose questioni femministe. E, come femministe, dobbiamo agire”.

Non c’è alcun dubbio, siamo di fronte a una delle più drammatiche questioni femministe della nostra epoca. Ma c’è un grande pericolo nella costruzione e nella narrazione della categoria “migrante”, assurta nel bene e nel male a centro di ogni discorso politico, culturale, mediatico, antropologico, quasi fosse uno schermo nero, un black mirror utile a coprire qualsiasi finzione o distorsione della realtà, in un senso e nel senso opposto.

Su una sorta di video eternamente acceso, scorrono a ritmo continuo fuggevoli immagini di donne, uomini, bambini che perdono la loro corporeità, la loro verità, per entrare a far parte di una rappresentazione che si confonde con mille altre cui assistiamo dalle nostre case. La popolazione migrante diventa così un teorico “insieme” reso compatto e inconoscibile dalla spettacolarizzazione che ce la offre in pasto, stimolando secondo i casi indecenti rifiuti o lancinanti sensi di colpa.

Quando poi nelle piazze, negli alberghi, nei paesi sperduti entrano in scena i corpi veri e l’insieme inizia a sciogliersi, allora appare un mondo di soli uomini che “fanno paura” perché appaiono “troppo giovani, troppo alti, troppo forti”, grazie a un immaginario regressivo che divide il mondo tra noi e loro, i “minacciosi altri” da cui difendere le “nostre donne”, che invece nella realtà sappiamo essere esposte alle violenze di partner autoctoni. Ma dove sono le tante donne che in tv abbiamo visto sbarcare dalle navi, stanche, spaurite, avvolte nelle gellabie, spesso con i bambini stretti in braccio? Che cosa accade dopo lo sbarco, perché sembrano quasi svanire nel nulla?

È un fenomeno inquietante: la presenza delle donne migranti nelle nostre città e nei nostri territori viene resa invisibile da quei dispositivi ufficialmente destinati a “proteggerle”, che nei fatti le sottraggono immediatamente alla vista ricoverandole in centri impenetrabili. Ci rendono così impossibile monitorarne le condizioni, il rispetto dei diritti, la regolarità delle procedure, e soprattutto ci impediscono il contatto, l’inizio di un dialogo, il loro riconoscimento come persone.

Tuttavia l’inconoscibilità dei soggetti migranti, e in particolare delle donne, viene prodotta anche dall’opacità della stessa categoria “migrante” che cancella e appiattisce le differenze con una forzata universalizzazione. Chiediamoci allora se sappiamo metterci davvero in gioco rovesciando la comune percezione di questa realtà anche dentro di noi. Dobbiamo chiederci se capiamo davvero chi sia la donna che l’etichetta di migrante rischia di renderci indecifrabile.

Una prima cancellazione riguarda la consapevolezza della ricchezza culturale dei paesi d’origine dei richiedenti asilo. Dire migranti per una troppo grande quantità di persone in Occidente significa ormai pensare a qualcosa di nebuloso senza storia e senza cultura, e senza differenze. Un’ignoranza che impedisce di leggere la realtà, fra l’altro cancellando anche la memoria di un femminismo non occidentale di antica data (risale al 1944 il primo Congresso femminista arabo organizzato da Hodā Shaʿrāwī, egiziana, pioniera del movimento femminista egiziano e arabo).

Queste nuove presenze in parte ci disorientano e la difficoltà di entrare con loro in un vero rapporto ci spinge a cristallizzarle nel momento dell’esodo, senza vedere il prima e soprattutto il dopo della loro vicenda. Eppure la rottura dell’ordine che queste donne sperimentano nell’esilio, rischiando violenze, abusi e persino la morte, esprime un’eccedenza sovversiva rispetto alla norma omologatrice del mondo globalizzato, come dice Lidia Curti 1:

“L’oscillazione delle identità e dei linguaggi spezza la compattezza della parola «migrante», una superficie che rischia di essere impenetrabile, limita esseri pur complessi e mutevoli a un solo momento, cristallizzati nel passaggio tra origine e destinazione, nella fuga come in un fermo immagine. Senza più movimento o differenziazioni […] È anche soggetto politico non univoco che parla contro la violenza arbitraria della legge e di quella nascosta nelle pieghe della vita quotidiana, un soggetto politico che mette in questione il nostro concetto di modernità”.

Allora la domanda da porci in particolare adesso, rispetto alle migranti che arrivano da noi in questa fase storica, è se siamo in grado di capire di che cosa sono portatrici. Non sono solo persone che hanno attraversato tutti gli orrori possibili, sono anche e soprattutto soggetti di autotrasformazione e trasformazione. Hanno compiuto un viaggio nell’altrove, un viaggio nel futuro che mette in discussione le nostre regole, il nostro concetto di modernità, il nostro femminismo, la nostra idea di democrazia, così carente da molti punti di vista.

Sempre secondo Curti: “La migrante ha costante coscienza di sé, di ciò che è e di ciò che diviene. La nuova appartenenza richiede un passaggio interiore tra quello che è e ciò cui aspira – o deve aspirare – ad essere. Ella è uno spazio di differenze, un soggetto molteplice, la cui voce richiede ascolto attento alle pieghe della sua condizione e non la sommaria rappresentazione che la parola evoca: l’identità migrante è instabile, fluida, ricca di ibridità”.

Quindi non si tratta solo di denunciare e svelare le violenze dei nostri meccanismi occidentali ai loro danni, dobbiamo anche e soprattutto costruire il terreno di confronto e disponibilità al nostro stesso, profondo mutamento. Dobbiamo rompere quella categoria compatta come un muro che cancella le individualità, le soggettività, le storie, sviluppando un progetto che non finga un’inesistente identità fra noi, diverse per status, colore, origine, e non ancora ibridate dalla sperata mescolanza, ma metta in luce ciò che realmente ci accomuna, l’essere tutte – noi e loro – corpo estraneo e straniero nell’ordine patriarcale.

Solo accettando il mutamento che ci mette in discussione e rompe tutte le categorie, potremo forse riuscire a far emergere le voci e la forza delle donne migranti come soggetti autonomi che stanno mutando se stesse, il luogo dell’origine e quello di destinazione.

Proviamo allora a uscire dalle generalizzazioni e dalle categorie per trovare insieme strade di libertà alla ricerca di una nuova cittadinanza

“che prescinda dalla nazione e si riferisca ad affiliazioni diverse. Si può pensare a un movimento sociale, culturale o politico; un evento congiunturale; un’aura affettiva; una localizzazione geografica diversa da quella tradizionale, che tenga conto delle complesse intraetnicità che coinvolgono il nostro rapporto con l’altro e dell’altro con noi”, suggerisce Lidia Curti, e questa credo sia la direzione verso cui potremmo muoverci come femministe oggi.

Da  http://comune-info.net/2016/12/donne-migranti-e-noi/