“La corrente di tenerezza è la più antica – scrive Freud – Essa deriva dai primissimi anni di infanzia, si è formata sul terreno degli interessi della pulsione di autoconservazione e si rivolge alle persone di famiglia, essa corrisponde alla scelta oggettuale infantile primaria… Il lattante attaccato al petto della madre è diventato il modello di ogni rapporto amoroso”. Se è vero che la memoria del corpo trattiene, come un buon archivio, anche le esperienze più remote di un essere umano, che cosa resta di quel singolare passaggio che è l’unità a due o la parziale indistinzione tra la madre e il figlio nella fase che precede la nascita e nei primi mesi di vita? Se l’amore conserva, nonostante la varietà delle relazioni e degli interessi umani, una indiscussa “centralità”, non è forse per quella tenerezza antica che precede ogni separazione, ogni differenziazione di poteri, ruoli, attitudini, tutto ciò che ha opposto storicamente l’uomo e la donna, l’adulto e il bambino? Non è questa “preistoria” che mantiene aperta la strada del ritorno nostalgico all’origine, al “paradiso perduto” dell’infanzia?

L’amore, nella sua definizione più nota e più duratura, è simpatia profonda di nature diverse, fusione assoluta e miracolosa che di due esseri complementari fa un solo essere armonioso. Se la “coercizione al lavoro” spinge l’uomo verso aggregazioni sempre più ampie, la “potenza dell’amore” sembra invece premere in senso opposto e trattenere la coppia degli amanti nel chiuso di sentimenti “teneri e intimi”. “Al culmine dell’innamoramento, il confine tra Io e oggetto minaccia di dissolversi. Contro ogni attestato dei sensi, l’innamorato afferma che Io e Tu sono una cosa sola, ed è pronto a comportarsi come se le cose stessero così”.

Amore di sé e amore dell’altro nascono insieme, ignari della distanza che permette di vedersi e darsi confini. Ma è proprio questa ideale permeabilità reciproca, questa “oasi” che sembra fare dell’amore la sola eccezione alla legge del dominio maschile, a far passare in ombra i destini così vistosamente divergenti di un sesso e dell’altro.

Difficile dire quanto abbia contato la nostalgia di figlio nel volere che la donna restasse essenzialmente madre, luogo di partenza e di ritorno, utero e tomba, rifugio primo e ultimo per il viaggiatore del mondo; quanto invece sia stata la donna stessa a ripiegarsi su una “proprietà” biologica, carne della sua stessa carne, vita affidata alle sue cure, conferma di senso e indispensabilità capace di compensare l’insignificanza a cui l’ha condannata la vita pubblica.

Relegati rispettivamente sul versante dell’origine e della storia, la donna e l’uomo non sembrano conoscere altra tregua a un conflitto millenario che l’illusoria cattura dell’innamoramento, sogno febbricitante di unioni impossibili. Neppure l’indifferenza delle logiche produttive e di mercato sembrano aver scalfito l’idea di tenerezza come “appartenenza intima” legata alla “casa” comune, primordiale, del maschio e della femmina, quel mondo-corpo della madre, che la comunità storica degli uomini continua ad amare e temere, ad esaltare immaginativamente e ad aggredire con violenza.

Confinando la donna nel ruolo di custode della casa, degli affetti, della sessualità, l’uomo ha costretto anche se stesso a restare bambino, a portare una maschera di virilità sempre minacciata. Come luogo che istituzionalizza l’infanzia, la famiglia, pur nella crisi attuale che l’attraversa, continua ad essere vissuta come rifugio e prigione, garanzia di sopravvivenza e minaccia permanente di perdite e abbandoni. Tenerezza e violenza, amore e odio, fuori dalle infinite coperture ideologiche che le hanno tenuti lontani dalla coscienza storica, mostrano oggi inequivocabili parentele. Le cronache, i rapporti internazionali sulla violenza contro le donne, dicono che il pericolo si annida proprio là dove si va a cercare protezione, che è dall’interno dei rapporti più intimi che si scatena la furia omicida, o perché l’abbraccio è troppo stretto o, al contrario, perché sembra essersi definitivamente allentato.