Si può fare la storia del femminismo italiano? Qualche considerazione dopo un recente convegno dedicato ai Gender Studies in Italia a Grenoble a cui hanno partecipato ricercatrici, studiosi e studenti; in gran parte, ma non solo, italiane/i che insegnano e studiano fuori dall’Italia, in Francia, Inghilterra e Stati UnitiC’era un buon numero di giovani che nel Belpaese arrancano faticosamente o si estenuano tra le umilianti spire del precariato universitario.

Assenti primedonne e nomi altisonanti dell’establishment politico e culturale femminista da entrambe le sponde atlantiche, i dibattiti assai vivaci si sono svolti in un clima cordiale, estraneo alle pompe dell’accademia, favorendo stimolanti aperture problematiche.

Tra le molte questioni che hanno circolato, ne pesco una, serpeggiante anche negli interventi a un convegno del 2008 a Prato, poi raccolti in un numero speciale della rivista “Italian Studies”, giugno 2010, a cura di Charlotte Ross e Susanna Scarparo (Ross era presente a Grenoble).

Per riassumere in poche parole: dovendo orientarsi nel complicato arcipelago del femminismo italiano – la sua storia, origini, figure principali, documenti, evoluzione – da dove cominciare? Quali testi proporre alle (e ai) più giovani?

Nonostante le migliaia di pubblicazioni, ricerche e siti web ormai esistenti, chi insegna, chi fa politica, chi scrive di, su, intorno, alle donne e al femminismo in Italia non sa mai bene da dove cominciare.
_ Qualche anno fa c’era da perdere ogni speranza di venirne a capo; mentre ora ci si illude che Google possa risolvere ogni problema.

Tuttavia, quando si scorre l’indice della voce “Femminismo” su Wikipedia [consultata il 6 dicembre 2010], lunga più di 30 cartelle, è difficile sentirsi soddisfatte.
_ E per varie ragioni; tanto per cominciare: mancano troppi nomi ed esperienze importanti; troppo facilmente vengono presentati i passaggi, spesso drammatici, da un’idea e un manifesto a una mobilitazione di piazza; e via dicendo.

Chi legge vorrebbe certezze e punti fermi: date, nomi, volti, documenti ai quali aggrapparsi come a una zattera salvifica. Ma appena li ha tra le mani capisce che in realtà avrebbe voluto altro, qualcosa impossibile da ottenere da una scheda per quanto lunga e bene articolata; e anche da un corso universitario, probabilmente.

Diverse, e talvolta di segno opposto, sono le scelte che si possono fare. Fornire:

_ un percorso a tappe stabilite, con scansioni precise e protagoniste bene identificate (la maggior parte delle schede fornite da Google rispondono a questo criterio);
– la versione parziale ma ben confezionata, concepita dentro un osservatorio privilegiato e influente che ignora tutto ciò che è lontano geograficamente, dissidente politicamente, estraneo teoricamente (come quelle provenienti da esperienze storiche specifiche; per es. la Libreria delle Donne di Milano);
– il quadro disseminato di luoghi, episodi, interpreti principali sparsi, raccolti in una molteplicità disomogenea e variegata; con lo scopo di offrire una irraggiungibile rappresentazione totalizzante.

Nessuna di queste soluzioni sembra appagare il desiderio profondo di restituire – a noi femministe degli anni ’70 in primo luogo, e poi alle generazioni più giovani – il segreto di quella esperienza passata, nell’illusione di poterla ripetere.

Mi pare sia giunto il momento di suggerire una via meno dispersiva e manchevole, mettendo da parte ogni tentazione di onnipotenza ricostruttiva.
_ Intanto, si potrebbe cominciare a disegnare un paesaggio diverso, nel quale valorizzare quanto, nei decenni trascorsi, è rimasto ai margini o poco conosciuto per dedicarsi a illuminare lati rimasti nell’ombra; capovolgere quanto prima sembrava stare dritto in piedi, mentre poi ci si è accorte che era capovolto e a testa in giù.

In poche parole: non varrebbe la pena di orientarsi verso una visione morfologica anziché geometrica? rinunciare a misurare altezze e lunghezze, per favorire invece le forme e le qualità? fotografare i bordi, i lati, gli sfondi, spingendo in posizioni defilate le figure rimaste troppo a lungo al centro; ammorbidire le linee forti delle fisionomie predominanti per far venire alla luce particolari nascosti di oggetti fino al momento poco visibili?

Lo so, il minimalismo è difficile da vendere; come certi piatti all’apparenza di scarso sapore. Ma quanto più gustose le ricette che aggiungono agli ingredienti il pizzico di un aroma speziato o di un’erba selvatica, e non si contentano dei soliti spaghetti ‘aglio e olio’!
Tutto questo, in che modo si concilia con i problemi di come fare la storia del femminismo italiano?

Forse; ripeto, forse, si può cominciare a spegnere qualche riflettore. Magari un tentativo di risparmio energetico darebbe meno illuminazione al nord e un po’ più di luce al sud: è possibile che il femminismo italiano cominci e finisca sempre a Milano, con una puntatina a Trento, e prosegua poi a Verona? Mentre a riempirsi erano immancabilmente le piazze di Roma?

E’ credibile una simile geografia? Le teste pensanti, le mirabili esperienze, rimangono in Lombardia; qualcosa anche in Piemonte e Veneto; mentre un destino di mimesi e ripetitività, o impetuosa militanza, si abbatte nel resto del paese. Non l’avevamo già sentita questa storia, quando “si faceva il Risorgimento” a Torino, le navi partivano da Quarto, il meridione era pieno di orribili briganti, Lazio Marche Abruzzo sommerse nell’oscurantismo papalino?

Gli anni Settanta rimangono ancora un deposito pressoché inesplorato di esperienze corporali, visuali, scritte. Ne sappiamo ancora troppo poco.
_ Cominciamo da questa semplice constatazione: in realtà, non abbiamo conoscenze approfondite di quegli anni; quasi che non riuscissimo ad afferrarli da nessuna parte in maniera convincente.

E’ accaduta la stessa cosa nei decenni successivi ad altri momenti di intenso rivolgimento: a chi scriveva sulla rivoluzione francese nei primi decenni dell’800, su quella russa negli anni ’30 del secolo scorso, sullo stalinismo durante il ’68, su Israele dopo l’Intifada.
_ Quanto era sembrato così chiaro e dai contorni nitidi, ora appariva offuscato allo sguardo.

Così è nei periodi in cui la società entra in ebollizione: tutto sembra capovolgersi e poi rientrare nei ranghi, ordine e disordine si scambiano per un po’ le parti. Ciò che era ben riconoscibile nel 1975 non lo era già più nel 1994, ancor meno lo è nel 2010.

Più che per ridipingere e colorare le pareti delle nostre vecchie stanze di quando eravamo ragazze, potrebbe essere una buona idea lavorare per rendere irriconoscibili (ma non per questo non vere) alcune esperienze del femminismo.
_ Compito da non procrastinare mi sembra oggi quello di restituire a noi stesse, in primo luogo, e poi ad altre e altri, un passato pieno di aspetti inquietanti. Letteralmente: fare in modo da non lasciare cose e persone in uno stato di quiete, come fossero oggetti, gente che dorme o è morta.

Come scrive Alice Ceresa nel suo stuzzicante “{Piccolo dizionario dell’inuguaglianza femminile}” (Nottetempo, 2007) alla voce Donna: “nessuno sa come e che cosa sarebbe la femmina umana se non avesse dovuto già in tempi lontani abbandonare la naturale identificazione biologica per l’innaturale assunzione di un vuoto involucro concettuale quale è appunto il termine di donna.”