unioni-civiliC’è una legge dello Stato – dunque una norma universale, non applicabile arbitrariamente – che sta mettendo in crisi un partito. La legge in questione è quella sulle unioni civili e il partito è la Lega, imbarazzata di fronte ai suoi sindaci che, applicando la legge (cosa che non possono rifiutarsi di fare), si metterebbero fuori dalla ‘linea del partito’, rischiando l’espulsione. La vicenda potrebbe sembrare ridicola e verrebbe da dire: problemi della Lega. Eppure fornisce l’occasione per una riflessione che va ben più lontano del misero recinto del Carroccio, rivelando che le associazioni di privati cittadini (che tali sono i partiti) non godono di un arbitrio assoluto sui proprio membri e non possono agire essi stessi contro la legge. La ‘linea del partito’ è decisamente subordinata alla legge dello Stato, con buona pace di Salvini. Si chiama Stato di diritto.

Lo Stato di diritto ha una caratteristica che lo distingue da ogni altra forma di relazione di potere fra governati e governanti e che rappresenta la sua peculiarità: in uno Stato di diritto sovrana è la legge, niente è al di sopra della legge, nessuno è legibus solutus. Questa che potrebbe sembrare una quisquilia per politologi – giacché nella realtà quotidiana tutti noi sperimentiamo svariati abusi della legge e incontriamo più d’uno che se ne sente solutus – è in verità una straordinaria conquista di civiltà, una di quelle rivoluzioni copernicane che hanno investito le nostre istituzioni e che hanno rappresentato un oggettivo progresso nella storia dell’umanità.

La ragione di questa portata autenticamente rivoluzionaria del principio dello Stato di diritto è che la legge è (almeno nella sua forma ideale, non sempre purtroppo nella prassi) universale, ossia deve applicarsi a tutti i casi da essa previsti e non è suscettibile di attuazione arbitraria. Stato di diritto versus arbitrarietà del potere. È per questo motivo che non solo i sindaci non si possono rifiutare di celebrare le unioni civili ma, ancora più radicalmente, l’applicazione della legge dello Stato da parte di un funzionario pubblico non può essere motivo di espulsione da un partito. Perché in uno Stato di diritto nessuno è legibus solutus, neanche i partiti, le associazioni, i gruppi di bocciofili, le comunità religiose, le singole famiglie. In uno Stato di diritto soggetti della legge sono i singoli cittadini, i quali hanno certamente diritto ad associarsi ma mai i “corpi intermedi” – a partire dalla più piccola comunità che è la famiglia – possono reclamare una autonomia dalla legge, invocando tradizioni, usi, costumi, credenze o convincimenti politici per creare al proprio interno una sorta di “Stato” parallelo, all’interno del quale valgono le norme che la comunità si dà (meglio: quelle che coloro che hanno il potere in quella comunità danno) e non le leggi universali dello Stato.

Si tratta a ben vedere di una formidabile garanzia per l’autonomia dei singoli cittadini, il cui rapporto con la legge è diretto, senza mediazioni, e che a essa possono appellarsi anche contro le proprie stesse comunità di appartenenza. È sulla base di questo principio, per esempio, che le donne possono pretendere tutela da parte dello Stato nei confronti un marito violento, o che i servizi sociali possono decidere, in determinati casi, di togliere la potestà genitoriale. In uno Stato di diritto l’argomento “sono affari di famiglia” non vale. Così come non vale quello “sono le nostre tradizioni” oppure “è la nostra fede”: nel momento stesso in cui questa fede, quelle tradizioni ‘impongono’ ad alcuni membri di quella comunità quelle che sono delle violazioni di elementari diritti di cittadinanza (l’integrità del corpo, l’autonomia degli individui), lo Stato (se è uno Stato di diritto e non un’accozzaglia di comunità parallele) ha non solo il diritto, ma anche il dovere di intervenire.