Il 30 settembre 1855 Emilia Toscanelli Peruzzi così annotava nel suo diario: “E’ del tempo che non mi occupo di politica e poco ne scrivo. Fu passione vivissima allorchè sembrò che le sorti d’Italia dovessero cambiarsi. Caduta ogni speranza, guardai gli avvenimenti senza commuovermi”. Si tratta di affermazioni che traducono il comune sentimento di disillusione seguito in Italia al fallimento del ’48, ma certo anche il bisogno di difendersi da una tutta personale sofferenza “sottile e profonda” –per usare le parole di Lydia Becker- derivante da una viva passione che sembrava non trovare spazio nel corso della storia: la passione che Emilia nutriva forte per la causa italiana e che la spingeva ad occuparsi apertamente di politica ben oltre i modelli di genere del tempo e sicuramente oltre la sua stessa ideologia, per la quale netta doveva rimanere la distinzione tra patriottismo femminile e politica maschile.

Una passione che non era stato il suo matrimonio con Ubaldino Peruzzi -futuro esponente della Destra storica- a produrre in lei: come attesterà chi, dopo la sua morte, scriverà che amava l’arte e la letteratura, alle quali anteponeva soltanto la politica.
Emilia Toscanelli era nata nel 1826 a Pisa in una ricca famiglia in cui si incrociavano solidi patrimoni e antiche tradizioni mercantili e –per via materna- possedimenti e legami con la Corsica di Napoleone.

Cresciuta sotto la guida della madre, che le aveva assicurato una buona istruzione e continui stimoli culturali grazie a una trama di sapienti relazioni, Emilia era diventata una buona cattolica, anche se contraria al temporalismo papale; vicina alle tesi di Gioberti e complessivamente al cattolicesimo liberale, considerava centrale per la vita delle donne l’esperienza religiosa.

L’idea di fondo con cui aderì al Risorgimento era quella del pacifico sviluppo delle riforme nel rispetto della tradizione e degli assetti sociali, un’idea che portava ad una vera e propria ammirazione nei confronti di Cavour e delle sue strategie e che finiva, invece, col gettare un giudizio pesantemente negativo sulle forze democratiche e soprattutto sui mazziniani (tanto da definirli “indegna setta”).

Nel 1850 aveva sposato Ubadino Peruzzi, gonfaloniere di Firenze, direttore delle strade ferrate del Granducato di Toscana, più volte sindaco e ancora ministro della Pubblica Istruzione; esponente del moderatismo liberale toscano, aperto sostenitore dell’unità nazionale, il Peruzzi perorò la causa dell’annessione della Toscana al regno d’Italia presso Napoleone III, e si trasferì poi a Torino diventando ministro.
_ Così Emilia, che si sentiva personalmente umiliata dal giogo straniero sull’Italia, profittò di tutte le occasioni offerte dalla sua posizione per partecipare agli avvenimenti politici in corso.

Sempre decisa a farsi un’opinione personale e documentata, continuò a leggere, informarsi, intrattenere un fitto scambio epistolare con protagonisti e interpreti di quegli eventi e seguì il marito nei vari spostamenti, coronati infine dal ritorno a Firenze dopo la proclamazione a capitale del Regno; continuò inoltre a gestire il suo salotto proprio in funzione della parte politica cui si sentiva collegata idealmente e praticamente, mostrando non solo interesse e passione per le vicende nazionali e internazionali in corso, ma anche una notevole perspicacia e intelligenza politica.

Diventato progressivamente meno frequentato dopo lo spostamento della capitale a Roma, il salotto della Peruzzi ritornò in auge con l’ingresso di alcune figure di giovani intellettuali emergenti come Vilfredo Pareto e Sidney Sonnino.

Nel ’72 Emilia cominciò ad interessarsi attivamente anche di emancipazione femminile, grazie soprattutto alla lettura del classico di J. Stuart Mill The subjection of women del ‘69, che le era stato suggerito proprio dal giovane Pareto.
_ Il moderatismo la guidò anche su questo terreno, peraltro aperto alla discussione dell’opinione pubblica nazionale del tempo non solo per la nascita delle prime voci del movimento emancipazionista, ma anche e forse soprattutto per l’interesse che le classi dirigenti dello stato nazionale mostravano verso il tema della “nuova italiana”.

Su una questione così dibattuta la Peruzzi decise di indagare opinioni di esperti e confrontare tesi diverse grazie ad un questionario preparato ad hoc come terreno comune di analisi; e in quella che probabilmente è la sua sintesi personale al dibattito da lei stessa sollecitato è dato leggere che “nel consorzio civile non può esistere una perfetta uguaglianza di diritti e di doveri per l’uno e per l’altro sesso.

Se la natura non avesse fatta la disuguaglianza converrebbe che la creassero i Governi (…) O sfacelo o disuguaglianza”.
_ Emilia era cioè convinta non solo che esista un’incancellabile differenza tra uomini e donne, ma anche che essa costituisca in sè un bene, pur nell’asimmetria che ciò comporta; apriva uno spiraglio alla possibilità di votare, ma non di essere votate, e soprattutto affidava alla lenta e graduale trasformazione della realtà la possibilità di spingersi oltre.
_ Portava così alle “ultime” conseguenze le opinioni di tutta una vita, anche se ne era un’evidente smentita.