Il 25 novembre, giornata internazionale contro la violenza sulle donne, sarebbe bene ricordarci di tutte le violenze che hanno la loro origine nei sistemi di poteri che governano il mondo. Sistemi che si fondano sulla logica del profitto economico a scapito della qualità della vita delle persone e nei quali ancora non trova sufficiente spazio l’idea che la donna sia un soggetto avente dei diritti, in primo luogo quello di autodeterminarsi.
“La cosa peggiore è il modo in cui sono stata trattata: hanno cercato di togliermi la dignità di donna”, così ha spiegato Elisabetta Collu, lavoratrice presso un Carrefour del cagliaritano, la violenza di cui è stata fatta oggetto.Elisabetta è una lavoratrice precaria assunta da una cooperativa con un contratto precario che le consente di racimolare un salario variabile che va dai 300 ai 700 euro mensili . A fine luglio ha scoperto di essere incinta: correttamente ha avvisato i datori di lavoro che per congratularsi l’hanno licenziata. A proposito di difesa della vita fin dal suo concepimento!

Savita Halappanavar, una donna irlandese di origine indiana, ha perso la vita dopo che i dottori le hanno negato l’interruzione di gravidanza alla 17esima settimana, motivandola con il fatto che l’Irlanda “è un paese cattolico”.
Savita ha chiesto più volte, in preda a violenti dolori, che si intervenisse, ma i medici le hanno risposto che finché si sentiva il battito cardiaco del feto non si poteva fare niente. Così è morta Savita in un paese, l’Irlanda, che nel 2012 ancora non si è dotato di una legge sull’interruzione volontaria della gravidanza che preveda il diritto delle donne all’autodeterminazione.
Si è aperta un’indagine per comprendere meglio la dinamica degli eventi, tenuto conto anche del fatto che la norma che consente l’interruzione di gravidanza in caso di rischio per la vita della donna, almeno quella, è prevista. Ma intanto Savita non c’è più.

La crisi economica incalza, i sistemi pubblici di protezione sociale sono messi in discussione in ogni parte d’Europa e con essi il diritto alla salute, all’assistenza, alla casa e all’istruzione. In particolare in Grecia, un paese strangolato da un debito che ha determinato solo in parte ma in nome del quale si affama la popolazione. In questo contesto, a Firenze durante il forum sociale europeo nel workshop {“Le donne di fronte alla crisi: pratiche di resistenza ed alternative fremministe}”, le{{ donne greche}} presenti hanno informato che nel loro paese {{nelle strutture sanitarie pubbliche non viene più garantita la copertura finanziaria per l’assistenza al parto}}.

Chi vuole partorire in un ospedale pubblico deve pagare 1.500 euro! Il rischio per la salute delle donne e delle/dei nasciture/i è elevatissimo, visto che solo in poche possono permettersi il “lusso” di pagare migliaia di euro per il parto.

Regala futuro la constatazione che in ogni parte del mondo, ed anche in Italia, noi donne non ci rassegniamo ad un “destino” da “secondo sesso” e lottiamo per affermare con tenacia il nostro diritto ad avere dei diritti. “