In questo suo romanzo Alessandra Carati ci riporta alla guerra dei Balcani del 1992, ci avvicina al tema della sofferenza che deriva dal taglio violento delle proprie radici. Partendo dall’abbandono forzato del proprio paese a causa della guerra, le vite dei protagonisti profughi in Italia si snodano in un turbinio di vicende tutte ancorate, in un modo o nell’altro, a quell’antico e struggente sentimento che si è insinuato nella nuova realtà e che la piccola Aida rievoca nel canto di sua madre, la sevdah. Ci sono diverse traduzioni e spiegazioni per la parola sevdah. Secondo alcuni deriva dalla parola turca “sevda”, l’amore. Altri ricordano la parola persiana “soda”, che vuol dire malinconia, o l’arabo “sawda”, bile nera. Ma quelli che conoscono la sevdah sostengono che ricorda il fado portoghese. E il sentimento che porta il fado, in portoghese si chiama saudade. E’ un genere di nostalgia, ma intraducibile. Infatti, c’è chi dice che la sevdah è la saudade un po’ modificata nel corso di lunghi viaggi…

In questo nuovo viaggio amore, nostalgia, malinconia, bile nera abitano nell’anima dei protagonisti da quando sono stati costretti ad abbandonare il villaggio rurale della Bosnia natia. Un abbandono che strapperà a tutti loro anche l’illusione di potervi fare ritorno, salvo tentare una faticosissima ricostruzione giacchè il villaggio e la casa originari saranno totalmente ed irreversibilmente distrutti.

Ogni pagina è impregnata da questa corrosiva sofferenza che, come magma, trascina bruciando  con sé qualunque comprensione, qualunque convinzione e qualunque altra appartenenza.

L’interesse che suscita questo romanzo è imperniato non tanto sulla guerra e le sue atrocità, quanto sulle conseguenze che si sono innescate successivamente, al mutare delle condizioni di vita ed ambientali che, seppur salvifiche, non hanno attenuato il senso di mutilazione derivante dalla perdita della propria identità, dall’essere stati involontariamente estirpati dal proprio passato. Questo sentimento acquista connotati diversi in ogni personaggio, con sfumature particolari: dalla depressione quasi catatonica in cui piomba la madre di Aida, Samira: “la tristezza era un veleno che accumulava nel corpo”, alla rabbia del padre che non si trova nelle condizioni di potersi affiancare ai partigiani bosniaci dovendo provvedere ai bisogni della famiglia, al senso di estraneità della stessa Aida che, con suo fratello, subisce quell’atmosfera familiare che vorrebbe recidere e, nello stesso tempo, continuare a desiderare di trasformare. Sullo sfondo la figura della nonna che rappresenta gli antichi legami e la vita delle origini, unica persona capace di riportare un poco di quiete ai familiari durante il breve periodo in cui riesce a venire in Italia ed a ricongiungersi a loro, per poi scegliere di ritornare in Bosnia a combattere al fianco di suo marito.

Ho più volte interrotto la lettura del romanzo quasi per riprendere fiato, per poi riprenderla,  provando un senso di inadeguatezza interiore a sopportarne l’intensità, e la stessa autrice ammette di aver lasciato decantare questo progetto per alcuni anni prima di poterlo portare a termine. Per farlo è stato necessario documentare gli elementi narrati attraverso viaggi, testimonianze, racconti ed esperienze che Alessandra Carati ha dovuto ricostruire di persona, in quel che restava degli originari luoghi abbandonati e poi spariti, prima di poter trovare la chiave di scrittura. Perchè della guerra crediamo di sapere tutto, ma qui la guerra è soltanto uno scenario di fondo; un’altra interminabile e tenebrosa guerra sopravvive nell’animo di ogni persona costretta a sfuggirvi perdendo la propria identità originaria. “Al villaggio l’acqua la prendevano le donne dal pozzo ed era sempre gelata come neve appena sciolta. … Ancora oggi penso che la bambina affacciata al pozzo sia un’altra bambina, il mio doppio rimasto incastrato in una vita lontana, al di là del bosco”.

Sorrideva. Il suo cuore conteneva tutti i fiumi, le montagne, le foglie, le nuvole, l’argento della nostra terra. E la nostra terra era così profonda che nessuno avrebbe potuto decifrarla“.

A differenza degli emigranti che espatriano volontariamente per migliorare la propria condizione di vita e sperano di poter un giorno fare ritorno alle proprie terre, i profughi spesso non hanno più alcuna terra in cui poter tornare, o perché le condizioni sono pericolose per la sopravvivenza o perché, come in questo caso, la loro terra non esiste più.

Kuca moja mila” , mia casa adorata, è l’appellativo con cui la nonna si rivolge ad Aida e la sevdah è la canzone che la madre le canta durante la fuga: è un canto di nostalgia per qualcosa che è perduto e non tornerà più.

Non sono esasperati, sono senza più speranza, che è tutta un’altra storia, difficilmente recuperabile.

Alessandra Carati, E poi saremo salvi, Mondadori, 2021