Le elezioni regionali del 29 e 30 marzo sono state ancora una volta deludenti per quanto riguarda la presenza delle donne nei luoghi decisionali della politica, ciò indipendentemente dagli schieramenti politici di riferimento. I risultati elettorali confermano il trend che vede l’Italia al 72° posto nella classifica sul Global Gender Gap del World Economic Forum.Le nuove assemblee elettive regionali conteranno nei casi migliori, Campania e Piemonte, {{solo il 23,3% di consigliere, risultato ben lontano dall’auspicato “50 e 50” tra uomini e donne}}, che darebbe piena attuazione al dettato costituzionale dell’art. 51. Le due Regioni, che hanno visto prevalere lo schieramento di centro-destra, hanno eletto ciascuna 14 donne sul totale di 60 seggi.

Da segnalare che nella {{Regione Campania}} si è votato, dopo la recente pronuncia della Corte Costituzionale n. 4/2010, con una legge elettorale (l.r. n.4 del 29 marzo 2009) che introduce la doppia preferenza di genere, oltre alla previsione che “in ogni lista nessuno dei due sessi può essere rappresentato in misura superiore ai due terzi dei candidati” (art. 10). Nello specifico, l’art. 4 prevede che “Nel caso di espressione di due preferenze, una deve riguardare un candidato di genere maschile e l’altra un candidato di genere femminile della stessa lista, pena l’annullamento della seconda preferenza.”. Il risultato sembra confermare la validità del meccanismo della doppia preferenza di genere introdotta quale azione positiva per favorire l’elezione delle donne, benché da un’analisi più approfondita risulti che questo ha funzionato laddove i partiti politici hanno investito sul ticket uomo-donna.

All’estremo opposto troviamo {{la Calabria, che non ha eletto nessuna donna, e la Basilicata con una sola consigliera}}.

I risultati delle altre regioni si collocano all’interno del range 0% – 23%.

Diverse regioni presentano percentuali di elette al di sotto del 10%, in particolare la Puglia (5,1%), il Veneto(6,7%) e la Lombardia (8,7%). Tra il 10 e il 20 %, si situano i risultati della Liguria (15%), delle Marche (16,3%), dell’Umbria (16,7%), del Lazio (17,8%), della Toscana (18,2%). L’Emilia Romagna ha eletto il 22% di donne.

In alcune Regioni, il numero di donne elette è stato garantito, più che dal sistema delle preferenze, dalle candidature espresse nel c.d. {{listino bloccato}}: emblematico il caso del Lazio, in cui su 13 donne elette, di cui 10 appartenenti allo schieramento di centro-destra, ben 7 appartengono al listino “Renata Polverini per il Lazio”, mentre nessuna donna è stata eletta per la lista del Partito Democratico.

E’ da segnalare che la maggior parte delle tredici regioni è andata al voto con una propria legge elettorale che contiene misure relative alla rappresentanza di genere nelle liste volte a garantire la presenza femminile nell’accesso alle cariche elettive di diversa intensità: si va da {{soluzioni minimali}} quali la generica previsione dell’obbligo di presentare candidati di entrambe i sessi a pena di inammissibilità della lista, ma senza altra specificazione alla previsione di quote (“nessuno dei due sessi può essere rappresentato in misura superiore ai due terzi dei candidati”) a pena di inammissibilità della lista, alla {{doppia preferenza di genere}}. In alcuni casi la previsione di quote di un terzo è accompagnata da misure diverse, quali la penalizzazione economica per i partiti che non rispettano tale proporzione (es. Puglia) o la regolamentazione delle primarie con ordine alternato di genere, come nel caso della Toscana.

Tuttavia l’esito in termini di {{riequilibrio della rappresentanza politica }}mette in luce ancora una volta come non si tratti tanto di un problema di ingegneria elettorale, quanto di un {{deficit di cultura democratica all’interno dei partiti politici }}che sembrano aver investito in modo residuale sulle donne, evidenziando la carenza di una cultura paritaria per quanto riguarda i meccanismi selezione delle élites politiche e di accesso ai luoghi decisionali.

La via più auspicabile, come suggerito anche dalla {{Corte Costituzionale}} in più occasioni, è quella {{dell’autovincolo dei partiti }}politici attraverso l’adozione di norme interne che realizzino la parità di genere sia negli organi interni sia nell’accesso alle candidature elettorali sia nei risultati. Si tratta di {{un punto focale }}perché il vero cambiamento deve essere culturale, ma ciò presume una assunzione da parte dei partiti del principio dell’equilibrio della rappresentanza come obiettivo prioritario e il riconoscimento che le donne sono una risorsa irrinunciabile della società e della politica.

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