logosis-sceltoL’appuntamento autunnale con la Società italiana delle storiche (Sis), nella Casa Internazionale delle donne e nella Biblioteca di storia moderna e contemporanea (4-5 novembre), s’è incentrato su Donne, cittadinanza, religioni nella storia del Mediterraneo.

Nell’incontro introduttivo della prima giornata di lavori, Ayse Saracgil (Università degli studi di Firenze), studiosa della Turchia e dell’Impero Ottomano, ha ripercorso le dinamiche politiche e religiose intrecciate a quelle emancipazioniste.

«La divisione pre-moderna dello spazio esterno/interno non corrisponde affatto alla distinzione (posteriore alla Rivoluzione Francesce) tra pubblico e privato; è l’invisibilità delle donne decretata dalla Umma ad aver per corrispettivo l’esclusione delle donne dallo spazio pubblico.»

Se l’Impero Ottomano non rinunciò mai alla formula religione/stato/dinastia, fondamenti del potere, mantenendo l’importanza dell’applicazione sciaristica nella sfera privata, quest’impostazione non fu scalfita dall’adesione, «tra il ‘700 e l’800 del Novecento, di un gruppo di uomini molto colti, all’Illuminismo che inibisce il primato delle religioni, le quali fondano il potere sulla purezza e sul controllo, specie della sessualità. L’introduzione del dibattito sull’emancipazionismo fu portato avanti da costoro senza critiche all’Islam; erano convinti della ‘superiorità mussulmana’, mettevano in discussione l’autorità paterna, ritenuta esagerata, inidonea, al fine di riformare l’autorità maschile nell’ambito della domesticità. Le donne di quest’élite, coltissime e in rapporto con i femminismi europei, presero a modello d’emancipazione le Tedesche.»

La Repubblica di Kemal (1923), impedì la formazione di un “partito delle donne” e ammise solo l’associazionismo femminile equivalente alla sezione femminile del Partito Unico, tuttavia in molt* andarono avanti. Tutto il 1936 fu attraversato da grani dibattiti sull’accesso delle donne alle studio e alle professioni; altri dibattiti investirono la poligamia e la prostituzione.

Nel 1937, diciotto turche entrarono in un Parlamento impegnato sui temi del nazionalismo, della laicità ma non sul conflitto di genere. La mantenuta disparità alimentò nell’ultimo quarto del Novecento l’attivismo femminile contro il kemalismo; quelle donne posero questioni di genere ma furono penalizzate ulteriormente dal crescente divario e distinguo tra la realtà della capitale e di altri (pochi) centri urbani quella non urbana o periferica. Le attiviste erano considerate negative portatrici di valori occidentali e borghesi; tacciate di egoismo, anti-nazionalismo, anti-popolo, anti-Islam. La firma della Turchia su trattati internazionali (es. Cedaw, 1995), poco applicati, così come la nascita di luoghi gestiti da donne appartenenti al femminismo, impegnate contro le violenze (es. a Istambul, il Tetto Viola) non arginarono l’ondata anche di un femminile specialmente rurale, che fece del manifesto islamista una bandiera. In molte presero il velo come segno identitario nello spazio pubblico. Iniziò un progressivo avvicinamento delle laiche alle mussulmane. Le elezioni del 1994 non videro nessuna delle 200.000 militanti nei partiti vincenti ottenere al loro interno un qualche potere.

Nel ventaglio dei tanti interventi successivi, tutti interessantissimi, ricordiamo quelli di relatrici dell’Università degli studi di Napoli-L’Orientale:

Ersilia Francesca (Tradizione giuridica islamica classica e riforme del diritto di famiglia) ha sottolineato come la codificazione del diritto di famiglia abbia portato «di fatto, in vari paesi, il diritto islamico all’interno dei Parlamenti nazionali permettendo al legislatore di darne una lettura più vicina ai mutamenti sociali e del sentire collettivo, fermo restando il rispetto formale dei suoi principi fondamentali.»

La strategia che sembra diffondersi maggiormente per ampliare i diritti delle donne «è la reinterpretazione della tradizione islamica che permette al legislatore e alle attiviste di evitare l’accusa di attuare e/o sostenere riforme anti-islamiche.»

All’impostazione del Codice di famiglia marocchino (2004) «d’innovare la tradizione senza contraddire il diritto religioso’» guardano altri paesi anche perché un moderato  mix di modernità e allargamento dei diritti delle donne garantisce di ampliare il consenso, appoggi trasversali.

Nello specifico, Sara Borrillo (Il gender jihâd di Asma Lamrabet in Marocco tra femminismo islamico e re-invenzione della tradizione), ha descritto «l’approccio critico del femminismo islamico: una corrente di pensiero che mira a riformare l’Islam dal suo interno rifacendosi all’etica coranica, fondata sui principi di equità e giustizia sociale, sul piano teorico e attraverso strategie operate da studiose, nell’ambito di reti transnazionali, al fine di restituire alle donne autorità religiosa per promuovere un’interpretazione delle fonti sacre del diritto (il Corano, la tradizione profetica, lett. Sunna), favorevole all’uguaglianza di genere.»

Tra le principali esponenti della corrente, la marocchina Asma Lamrabet, «che ne esprime la complessità. Asma realizza la sua gender jihâd attraverso la sovversione cognitiva della tradizione al islamica per decostruire l’egemonia maschile nell’esegesi religiosa e nella normativa sociale e giuridica, in aperta sfida tanto ai discorsi islamici radicali che a quelli coloniali o islamobofici.»

La sua voce diventa «sempre più imprescindibile nei dibattiti sull’Islam e sul cambiamento politico sociale in Marocco e nei paesi a maggioranza mussulmana.»

A sua volta, Margherita Picchi (La giurisprudenza islamica incontra la CEDAW: strategie per una riforma del diritto di famiglia in Egitto), ha trattato «del divorzio dietro compenso (khul) da poco introdotto in Egitto, attinente alle mediazioni in atto in una società in fortissima crisi la cui Costituzione del 1956, laica, realizzata sessant’anni fa «dal governo di Gamal ‘Abd al-Nasser, dichiara illegale qualsiasi discriminazione fondata sul genere e riconobbe alle donne il diritto di voto attivo e passivo.»

La debolezza è lo scarto tra l’assunto e la prassi. Il regime nasseriano «si è concentrato soprattutto sul sistema di welfare e sull’inclusione delle donne nel mercato del lavoro, senza apportare alcuna modifica significativa al diritto di famiglia, elaborato per lo più negli anni ’20, che rilette ancora una concezione gerarchica delle relazioni di genere.»

Per superare le contraddizioni, mantenere lo stato laico, eliminare discriminazioni,  «alcuni gruppi femministi, nati negli anni ’80, hanno intrapreso una lotta in tal senso per riformare il diritto di famiglia. Nell’esaminare l’intreccio dei linguaggi politici, «c’è la contraddizione tra la rilettura egualitaria della giurisprudenza islamica (Fiqh) e le convenzioni internazionali sui diritti umani come la Cedaw».

Che l’Egitto non sia un paese omogeneo e quanto sia difficile leggere la realtà femminile e pericoloso codificarla con paramentri ‘occidentali’, lo hanno dimostrato  Valentina Schiattarella e Valentina Serrelli (Ruolo della donna nell’oasi di Siwa tra tradizione e cambiamento).

L’Oasi si trova a un centinaio di km all’interno della costa mediterranea, a 50 km dal confine con la Libia e conta dai 25.000 ai 28.000 abitanti.

L’organizzazione della società siwana è tribale, caratterizzata dalla rigida divisione tra i sessi che non corrisponde alla segregazione delle donne, le quali stanno accedendo all’istruzione, le giovani vanno anche a studiare lontano da quando l’Oasi, negli anni ’80, è stata collegata con una strada a Mass Margab.

La siwana è definita “morigerata, lavoratrice, buona moglie e madre” rispetto alle “altre” egiziane. Le siwane sopportano un grosso carico di lavoro quotidiano e sono anche ottime tessitrici e artigiane. Sono mussulmane ed erano fino a poco tempo fa analfabete, ma ci sono miglioramenti, anche portati dalla radio e dalla Tv, dall’accesso  all’Università. È in corso però un cambiamento restrittivo dei comportamenti femminili. Benché « in passato ci siano state fasi alterne di apertura e di chiusura, la società siwana si trova in contraddizioni molto forti riguardanti specialmente le donne nubili, con progressiva restrizione nella domesticità e non ci sono precedenti in alcune pratiche dell’Islam popolare che ha fatto comparire un ulteriore velo, spesso e nero, che copre il viso e il collo delle donne.

La comunità siwana, amazigh (berbera), è l’unica a vivere nei confini dell’Egitto ed è tra quelle che rifiutano il movimento d’autonomia amazigh che attraversa l’antichissimo popolo pre-arabo, il più antico delle popolazioni indigene del Nord-Africa.

Di questa rivendicazione che in Marocco, a seguito delle rivolte del 2010-’11, ha ottenuto il bilinguismo amazigh/arabo, ha parlato Anna Maria Di Tolla (Le donne amazigh come agenti di cambiamenti in Nord Africa: tra emancipazione e identità) sottolineandone le problematiche. «Perché all’Occidente sfugge la questione che i movimenti laici islamisti pongono?» si è chiesta, parlando della “primavera berbera”, del mancato riconoscimento del portato culturale amazigh in cui affondano le radici mediterranee anche rispetto «alle dee e alle sacerdotesse, al simbolismo femminile.»

Comune alle due giornate è l’indagine sulla dicotomia fra tradizione e modernità; sulle tante sfumature delle mediazioni che non possono essere calate dall’alto e che, rispetto alle donne, passano inesorabilmente sulla complessa complementarietà; sul linguaggio del ‘genere’; sulla innovazione/reinterpretazione/superamento della tradizione islamica e la riforma dei codici di famiglia; sull’allargamento dei diritti delle donne che non sempre corrisponde ai desiderata delle tante che rischiano tutto, anche la vita, in movimenti laici e religiosi. Lapidaria la frase di Maria Fois dell’Università di Ginevra (Dalla rivoluzione al silenzio imposto? Le donne algerine contro il Codice della famiglia): «Le Algerine sono state tradite; gli anni ’70 sono stati un periodo di illusione sulla conquista di diritti che al momento della stesura della Costituzione non sono stati riconosciuti.»

Si auspica una veloce pubblicazione degli Atti per dar conto della ricchezza  delle due giornate della Sis che, dal 1989, s’impegna nella ricerca e nella divulgazione della storia delle donne e di genere.

Ricordiamo, tra le sue pubblicazioni, la rivista “Genesis” e tra le attività, la Scuola estiva a Firenze (dal 1990) e il Premio Franca Bortolotti.

È in svolgimento il corso di formazione Donne nella storia-La didattica della storia in una prospettiva di genere, con attestati secondo le disposizioni del Miur (n.170/2016).

 

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