Ovvero: la dolce illusione borghese di porsi fuori della norma

Questo post nasce come risposta ad una mail in cui ci veniva presentato il libro Pornoterrorismo di Diana Pornoterrorista (qui)

John Currin, "The old fence" (1999)

John Currin, “The old fence” (1999)

Ogni iniziativa che si propone di rendere “la sessualità e il corpo come territori da decolonizzare dalla repressione patriarcale, ecclesiastica e capitalistica” suscita in noi interesse.

Tuttavia le nostre perplessità sorgono nel momento in cui dalla problematizzazione iniziale, dalla posizione di alcune questioni che anche noi riteniamo urgenti, si passa poi al piano delle possibili soluzioni. Lo scritto di Diana Pornoterrorista si inscrive all’interno di quel filone che si autodefinisce come femminismo pro-sex. Di esso noi mettiamo in discussione non solo il presupposto fondante ma anche le conseguenze.

Il femminismo pro-sex si fonda sulla nozione superficiale e postmoderna secondo cui l’ uso consapevole del proprio corpo come merce/prodotto/oggetto di scambio sia espressione di libertà. In questo prospettiva per una donna è possibile accettare consapevolmente e volontariamente la prostituzione. In egual modo il porno, come vendita di immagini a sfondo sessuale, appare come strumento che minerebbe le logiche del mercato e del capitale. L’autosfruttamento sembrerebbe essere sintomo di autonomia, segno inequivocabile di libertà. All’essere sfruttati dagli altri si oppone lo sfruttarsi da sé, ponendo questa come azione anti-capitalista. Tale posizione è, al contrario, profondamente capitalista, diremmo il suo compimento finale. Essa è alla base della società consumistica in cui viviamo e del sistema economico in cui ci troviamo dove, grazie alla possibilità di disporre del proprio corpo come meglio si desidera, alcuni esseri umani in posizione di evidente svantaggio economico, di genere, sociale, etnico e geografico divengono merci ad uso e consumo di altri. Eterosfruttamento ed autosfruttamento appartengono allo stesso paradigma capitalistico. Per superarlo bisogna perciò guardare altrove.

Abbiamo letto e discusso con attenzione tra di noi l’intervista a Diana Pornoterrorista e rileviamo uno slittamento tra lo scopo assolutamente legittimo di liberare i corpi dall’oppressione patriarcale, ecclesiastica e capitalista e le pratiche messe in atto per raggiungerlo. Rileviamo cioè un’evidente contraddizione tra ciò che si vuole ottenere e il metodo per ottenerlo, il quale, ci pare evidente,  genera risultati contrari a quelli desiderati.

Come ogni paradigma anche quello eteronormativo si costruisce su alcune polarità che ne fissano i concetti e il senso. Muoversi all’interno di esse, non vuol dire non superarle ma, al contrario, affermarle.

Tra queste polarità una centralità essenziale è quella tra il corpo e la mente/anima. Affermare la priorità dell’anima/mente è stare dentro al paradigma. Così come affermare, come fanno le pornoterroriste, l’assoluta centralità del corpo. E’ starci dentro, semplicemente rovesciandolo. Non si esce così dal paradigma, non lo si supera. Allo stesso modo, affermare la necessità della «riappropriazione del fallo», non mette in discussione l’assoluta centralità che esso riveste come simbolo fondante della cultura patriarcale. Non è cioè rifiutare la cultura patriarcale ma riaffermarla, perché il significato del simbolo è talmente forte e consolidato culturalmente che quello che passa in questa operazione non è il nuovo significato sovversivo, ma il simbolo in quanto tale. (Questo discorso vale anche per altre parole — “puttana”, “cagna” — il cui significato e in cui la dimensione del simbolo sono così forti che una riappropriazione, lungi dall’ottenere l’effetto sovversivo sperato, rinforza il significato negativo e patriarcale di partenza. L’operazione di riappropriazione e rovesciamento non è evidente e non è efficace).

Se da un lato ci troviamo in sintonia con la volontà di combattere la violenza contro quello che è fuori dalla norma, dall’altro lato ci rendiamo conto che Diana pone, a sua volta, una norma ben precisa, che emerge nel mondo in cui vengono stigmatizzate le donne che non si adeguano ad essa. Se non si scopa con il culo o non si apprezza il sado allora si è delle represse o addirittura delle bacchettone moraliste. Anche questa è esclusione. Anche questo è imporre una norma. Non solo, si impone così la stessa norma che si vorrebbe combattere. Cosa c’è di sovversivo in questo? Qui ritroviamo un’altra polarità tipica del paradigma eteronormativo, quella che ruota attorno ai due poli ‘santa’ e ‘puttana’. Focalizzarsi sull’uno opponendosi all’altro è stare dentro alla logica eteronormativa e non superarla.

Il porno appartiene in pieno all’etica eteronormativa, ne è una diretta discendenza, qualunque significato vogliamo dargli, di qualunque immagine vogliamo riempirlo. Il porno è in se’ mercato, ovvero capitalismo che si incarna nella sessualità e la sfrutta. Quello che esprimiamo non è un giudizio morale su di esso, ma una valutazione politica sulla sua funzione ‘economica’.

E ancora: cosa c’è di sovversivo e terrorista nel proporre come modalità di “liberazione” il dolore al posto del piacere (sic) quando esso è esattamente ciò che viene già assegnato alle donne nella pornografia mainstream? Cosa c’è di liberatorio nel proclamare ancora una volta la necessità di relazioni basate sul dominio quando è esattamente questo che il patriarcato vuole per noi? In molte parti del mondo le donne subiscono mutilazioni, violenze, matrimoni forzati, stupri. È preoccupante proporre il dolore come via di liberazione quando per la maggior parte delle donne nel mondo il dolore è la regola e non conduce di certo alla liberazione.

Quella che noi vorremmo è una sessualità libera e non l’imposizione di modelli di comportamento, qualunque siano questi modelli. Vorremmo un paradigma dove ciascuno sia libero di esplorare la propria sessualità e scoprirne i lati nascosti, senza che ci sia nessuno che giudica quali siano quelli normali e quali anormali, quali morali e quali immorali. Ma se la sessualità diventa sfruttamento economico dei corpi, allora non possiamo che dirci contrarie. E ciò non ha a che fare con la morale ma ha a che fare con il modello economico che ciò porta con sé. Esso è, per noi, l’esatto contrario della libertà.

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