Caos, violenze, saccheggi, carenza di acqua e di medicine, migliaia di morti insepolti, pericolo di epidemie… Succede lì in basso, mentre in alto, a pochi chilometri, la vita continua come al solito. Forse è uno di quegli “orrorismi”, tipici della nostra epoca, di cui parla un libro di Adriana Cavarero. La tragedia di Haiti, forse il più povero paese del pianeta, colpisce con una folgorante metafora. In basso, nella valle, c’è la distruzione provocata dallo spietato terremoto che come una guerra ha raso al suolo intere comunità, cancellando in un sol colpo migliaia di vite umane con le loro povere economie di sussistenza, le loro storie, le loro memorie. Tutto spazzato via.

Invece in alto, sulla collina, svetta intatta Pétionville, la zona dell’élite, dove alcuni ricchi isolani hanno costruito le loro stupende ville e dove proseguono indifferenti un’esistenza protetta, segnata dai riti della “buona società” che non si sono interrotti nemmeno di fronte a una tragedia d’immani proporzioni.

Scrive Paolo Foschini sul Corriere della Sera del 20 gennaio: “La fortuna ha sempre buona mira. Perché non è vero, alla fine, che il più tremendo terremoto della storia di Haiti l’ha distrutta tutta: un pezzettino della capitale Port-au-Prince si è salvato. Al cento per cento. Come ci fosse un vetro antiurto in mezzo: fin qui macerie, morte e distruzione ovunque; poi giri un angolo, e da lì in poi niente. Non nel senso che non ci sono vittime: non è caduta una tegola. I bar stile coloniale sono aperti, i ristoranti pure, persino il sottilissimo campanile della chiesa di Saint Pierre è intatto fino alla cima. E i più fortunati tra i fortunati continuano ad aprire il cancello ai visitatori mandando avanti un gentile cameriere in divisa: né più né meno che prima di una settimana fa.”

Caos, violenze, saccheggi, carenza di acqua e di medicine, migliaia di morti insepolti, pericolo di epidemie… Succede lì in basso, mentre in alto, a pochi chilometri, la vita continua come al solito. Forse è uno di quegli “{orrorismi}”, tipici della nostra epoca, di cui parla un libro di Adriana Cavarero.

Il basso e l’alto dell’apocalittico scenario haitiano rappresentano simbolicamente a perfezione, secondo me, l’involuzione oligarchica del mondo attuale, mistificata sotto le spoglie di una forma democratica che si sta ormai svuotando di ogni sostanza.
_ Proprio come quella che causa i terremoti, una faglia sempre più profonda sta separando le alte roccaforti del potere dalle basse pendici dove vivono le persone normali, progressivamente spogliate dei diritti basilari e dei beni comuni senza che abbiano possibilità di opporsi.

Due universi differenti, estranei l’uno all’altro e sempre più lontani. Naturalmente, sappiamo che in ogni tempo questo è stato l’obiettivo del potere e che in ogni tempo individui e popolazioni hanno subito inenarrabili ingiustizie. Oggi però, di fronte a catastrofi naturali o artificiali, in un mondo apparentemente democratico, totalmente interconnesso, ipertecnologico e ipermediatizzato, l’abuso di potere e l’enorme squilibrio economico, sociale e di genere risaltano con maggiore potenza e chiarezza.

Sembra profilarsi all’orizzonte una pesante regressione verso medievali privilegi di casta e – peggio ancora – verso nuove forme di schiavismo. In questo quadro di sconfitta globale, è ovvio che la condizione generale delle donne può solo peggiorare. Nelle società autoritarie, verticistiche e populiste (cioè sottoposte a un potere personalistico e tirannico di stampo patriarcale) tutte le libertà sono in pericolo, figurarsi quelle che ancora devono essere conquistate appieno.

Eppure alcune donne insistono, in varie sedi, a gettare strali all’indirizzo di altre donne accusate di vittimismo perché si ostinano a denunciare, oltre al degrado generale, il protrarsi dell’ingiustizia di genere, la finta parità, l’uso aberrante dell’immagine della donna con le sue devastanti conseguenze concrete e simboliche insieme.

L’idea forse è quella di celebrare il successo individuale che alcune per merito, per fortuna o per privilegio hanno conquistato. Ma il femminismo, pur nel suo giusto esaltare le differenze e le individualità, non mi sembra abbia mai inteso bypassare l’obiettivo centrale, ossia quello di modificare la condizione collettiva delle donne e quindi di trasformare nel profondo il modello di società impostoci da ideologie che del femminile non tengono alcun conto, o peggio lo sfruttano nel pubblico e nel privato.

Non si tratta di sterile lamento ma di coraggio della verità, perché non si può danzare sulle macerie. Difficile credere a una vittoria del femminismo in una società che obbliga lavoratrici e lavoratori a salire sui tetti (luoghi alti, appunto) per difendere il diritto al lavoro, mentre la ragnatela dei poteri criminali si stende ormai su ogni aspetto dell’organizzazione sociale.

Vero che a volte da un disastro può nascere una palingenesi, ma dipende da quanto e come i soliti poteri riescono a riorganizzarsi, spesso rafforzando le catene di prima. Realisticamente, la strada da fare per dar vita a modelli sociali radicalmente diversi è ancora lunga e difficile. E non si fa in solitudine. Come dice Judith Butler, riconoscere la propria fragilità e la reciproca vulnerabilità insita nella relazione costitutiva fra l’io e il tu, e fra l’io e il noi (oltre che fra noi e la natura) può spostare i termini e le modalità dell’agire collettivo su un altro e più autentico piano.