Guttuso-Vucciria-

Se la cura, l’educazione, l’apprendimento, la socializzazione fossero, fin dalla prima infanzia, responsabilità di entrambi i sessi, forse si scioglierebbe il nodo di amore e odio, che ha segnato fin qui il rapporto tra uomini e donne.

Ho un ricordo vago della maestra della prima e seconda elementare, mentre ho davanti agli occhi, nitida come allora, la figura, il modo di muoversi, di sorridere, di parlare, del maestro che mi ha accompagnata nei tre anni successivi, e senza il cui interessamento non avrei potuto, date le condizioni molto povere della mia famiglia, presentarmi all’esame di ammissione alla prima media.

L’ho visto invecchiare, quasi senza mutamento, le volte che sono tornata al paese e ho avuto l’impressione che anche per lui fossi rimasta l’allieva ‘meritevole’ che aveva conosciuto.

Di quei primi anni di scuola non saprei raccontare molto, ma so per certo che hanno segnato in modo durevole la mia vita, a cominciare dal desiderio -imperioso quasi quanto una ‘vocazione’- di diventare a mia volta ‘maestra’, dalla rapidità con cui ho imparato l’italiano, pur restando fedelmente legata al dialetto, fino all’amore particolare per la scrittura, rimasta, per tutto il percorso successivo, tramite di conoscenza e affetti con gli adulti incontrati nella scuola.

Posso pensare che l’essere femmina, figlia di contadini con un livello bassissimo di istruzione, costretta a cercare nei propri pensieri un riparo da corpi ingombranti, esasperati dalla fatica e dai violenti litigi di tre nuclei famigliari, mi abbia spinto a cercare nella scuola un’ancora di salvezza. Ma non c’è dubbio che, in quella prima sostituzione di figure genitoriali, prendono forma per ogni bambino scelte e comportamenti futuri, incorporazione di modelli, di paure e di certezze, destinate a prolungarsi come un’ombra, di cui si è dimenticata la provenienza, e quindi il modo per liberarsene.

Mi chiedo oggi che cosa abbia significato quella rara presenza maschile nel luogo che tutt’ora sembra destinato, come per naturale continuazione del ruolo biologico della madre, quasi esclusivamente a donne. La riserva, per non dire la spontanea riluttanza, che ho sempre avuto, a confondere o anche soltanto ad accostare madre e maestra, mi fa dire che vengono da lontano i ragionamenti più o meno dotti, politicamente meditati, con cui ho discusso in più occasioni pubbliche su questi temi.

Quando una parte del femminismo, dopo anni in cui si era scavato nelle storie personali, per capire quale violenza manifesta o psicologica avesse potuto chiudere l’esistenza femminile dentro la funzione materna, ha riportato in auge l’ “ordine simbolico della madre”, la superiore ‘competenza’ relazionale femminile, ho pensato che la visione del mondo dettata dall’uomo aveva ancora una volta trionfato su un percorso di autonomia appena agli inizi.

Tra le immagini che l’uomo, protagonista unico della storia, ha attribuito al femminile, quella di madre-maestra è senza dubbio, accanto a quella di oggetto erotico, iniziatrice sessuale, la più difficile da smascherare, per la copertura di falsa ‘naturalità’ che si porta dietro, ma anche per l’ambiguo segno che la contraddistingue: esaltata immaginativamente e storicamente insignificante, come ha scritto Virginia Woolf.

Se la divisione sessuale del lavoro ha ristretto il tempo e lo spazio delle donne alla cura di figli, mariti, fratelli, anziani, malati, occupazioni domestiche, l’attribuzione della fase iniziale del processo educativo a una figura femminile ha creato un ibrido, non meno limitante per la vita propria e altrui. Identificata, in quanto donna, col corpo, la natura, la casa, gli affetti, la maestra è, paradossalmente, anche il tramite di quello stesso sapere che ha continuato per secoli a definirla come tale, esclusa dalla sfera pubblica, dalla possibilità di sviluppare la sua intelligenza, le sue capacità creative, il suo potere decisionale.

Posta nel punto più delicato di snodo, tra famiglia e società, ha finito per essere il tramite inconsapevole del dominio di un sesso sull’altro, ma anche, purtroppo, dell’illusione che ha portato le donne a impugnare la loro sottomissione come potere di indispensabilità all’altro, madri in ogni caso, anche quando non hanno figli. Come possono gli uomini pensare le donne deboli e indifese, quando sono stati così a lungo inermi, dipendenti, ‘bambini’ anche se adulti, nelle loro mani? Non nascono forse da lì gli strappi violenti per differenziarsi, controllare il corpo che li ha generati e di cui pensano dipenda la loro sopravvivenza?

Se la cura, l’educazione, l’apprendimento, la socializzazione fossero, fin dalla prima infanzia, responsabilità di entrambi i sessi, forse si scioglierebbe il nodo di amore e odio, che ha segnato fin qui il rapporto tra uomini e donne.

L’articolo è stato segnalato anche dal Cordinamento donne di Trieste