Grazie a Floriana Lipparini per aver anticipato molti dei miei pensieri e delle mie perplessità sulla manifestazione del 13. Il suo articolo che si interroga e affronta, con un’analisi attenta, alcuni nodi importanti riguardanti il senso di tale iniziativa, mi risparmia la fatica di ritornare su alcuni passaggi. Mi conforta sapere inoltre, che le donne della Libera Università di Milano hanno avvertito l’esigenza – con i loro dieci perché – di mettere i puntini sulle i per esplicitare le ragioni per le quali hanno deciso, nonostante tutto, di essere in piazza.

Una decisione sofferta per quanto riguarda me e le donne che fanno parte di Oikos-bios su cui, ad avere infine la meglio, è stata la scelta alla politica del dentro e fuori che da sempre ci caratterizza e che rappresenta per noi un punto teorico e pratico irrinunciabile.
_ Che per renderci conto delle nostre catene – come dice Rosa Luxemburg – e che per uscirne sia necessario muoversi, s-catenarsi, innovando – come abbiamo cercato di fare con Donne in strada – le tradizionali forme di intervento nello spazio pubblico, è poco ma sicuro.

Ma il come e il quando, il perché, il per chi, il per che cosa ci si muove, non è irrilevante.
_ A puntare decisamente sul quando, è il titolo di questa manifestazione – Se non ora quando – inequivocabilmente allusivo a un’occasione unica e irrepetibile – a un kairos, si direbbe, più felicemente, in lingua greca. Come dire: “O adesso o mai più….”: un appello accorato che, nell’ annodare desiderio e speranza, lascia trasparire una diffusa e malcelata disperazione…

Che cosa, secondo gli inventori e le inventrici di questo titolo, si sia chiamati a fare con tanto tempismo, ora o mai più, è lampante: invitare gentilmente qualcuno – con un gesto, una “spallata” – a farsi da parte per restituire alla politica, al paese tutto e alle donne in particolare, la dignità infranta.
_ E, per raggiungere l’obiettivo, l’appello alle donne a essere parte viva e attiva e persino rivendicativa di un agone dal finale in grande stile, di certo non guasta.

Peccato però che la “chiamata” delle donne a una guerra fra maschi sostanzialmente incentrata sul criterio della misura, (esaltata in altri tempi da quel cazzuto di Bossi), ha sortito l’effetto – com’era ovvio e prevedibile in un sistema che perde il pelo ma non il vizio – di disgiungere, separare e spaccare le donne in due fazioni opposte e nemiche: di destra o di sinistra, sante o puttane. C’è qualcosa di nuovo sotto il sole?

Inutile dire che sarebbe davvero poca cosa se la salvaguardia della dignità delle donne dovesse dipendere da un gesto veicolato da un gergo tutto maschio – la spallata – piuttosto che dal riconoscimento degli straordinari contributi teorici da loro elaborati in tutti questi anni, finalizzati alla denuncia e allo smantellamento di un sistema di pensiero misogino che coincide con la tradizione occidentale tout- court.

Ricordare, a proposito di spallate, che la funzione principale del capro espiatorio consiste nel conservare e rafforzare, intatto, uno statu quo di potere, serve a risparmiarci l’illusione di credere che gesti simili siano davvero incisivi quanto alla destabilizzazione di quell’ordine gerarchico di subordinazione e di esclusione che struttura cultura e società in tutte le sue forme e contro cui le donne hanno tanto lottato. E’ altro il lavoro da fare.

Ma guardando, com’è giusto, il bicchiere mezzo pieno, coincidenza vuole, che kairos in greco, significhi anche incontro. Ed è per via di questo secondo significato che abbiamo deciso di partecipare a questa manifestazione, nella speranza che essa rappresenti un’opportunità per incontri a venire con donne desiderose di partecipare attivamente, attraverso l’invenzione di nuove iniziative, allo smantellamento di un sistema di pensiero malato.
_ Libere, finalmente, nel pensare e nell’agire, dalla trappola delle opposizioni e delle gerarchie, dell’antagonismo e della frammentazione di cui quel sistema si nutre e con cui ha nutrito, non poco, molti gruppi di donne provocandone la fine.

E’ in questa prospettiva che crediamo sia ancora possibile ricominciare a lavorare, assieme ad altre, all’ approfondimento e al confronto fra i nostri saperi, per meglio analizzare, comprendere e contrastare l’alienazione che ci minaccia tutte le volte che, attraverso processi identificatori – spesso inconsapevoli -, rischiamo di omologarci a modelli maschili di comportamento che hanno finito per allontanarci dalla meta desiderata.

Non basta forse questa chiamata a dire della “morte” di un movimento, della sua attuale inesistenza? E non sarà certo la tempestiva e circostanziata denegazione di questa realtà – visibile, oggi, come mai forse prima d’ora – ad aiutarci a uscire dall’impasse.
_ Si può ricominciare da capo? Con uno stile diverso? Forse sì. Solo in questo caso vale allora la pena di farsi strumentalizzare dalla “chiamata”, sì, per rovesciare l’uso strumentale che viene fatto di noi a nostro vantaggio.

Ma per fare che? Per vincere la sfida su cui il patriarcato è miseramente fallito: far stare insieme, in modo non dialettico, s’intende uno e diverso, unità e differenza.

Se il pensiero patriarcale dell’Uno è imploso sulla pretesa di unicità e sull’eliminazione della differenza, il pensiero delle donne è imploso sul prevalere del primato narcisistico delle piccole differenze fra donna e donna su quel “collante” unitario, la cui assenza all’interno dei gruppi ha lavorato contro la costruzione di un insieme di donne forte-unitario-diverso ma compatto.

Finché non ci sarà chiarezza su questo punto fondamentale, nessuna
azione politica incisiva da parte delle donne sarà possibile. Ecco, forse la nostra presenza, fra mille perplessità e qualche lacerazione interiore, alla manifestazione del 13, è un modo per dimostrare a noi stesse che declinare unità e diversità è possibile.

{* Paola Zaretti (Oikos-bios)}