Laura Seghettini, partigiana, è stata ospite di un incontro organizzato al Centro Donna di Livorno dall’Associazione Centrodonna Evelina De Magistris, lo scorso 12 aprile. Laura è una “ragazza anziana” di 88 anni, che, all’età di 22, sale in montagna e si unisce ad una brigata partigiana: la 12° Brigata “Garibaldi”, “fatta di compagni comunisti”. Laura è una giovane maestra, di famiglia socialista: ha già subito l’olio di ricino, non vuole subire altro. Vuole combattere. Diventerà vicecomandante della brigata “Picelli”.

Laura ha scritto, con Caterina Rapetti, un libro, “[Al vento del Nord->http://blogzeri.wordpress.com/2007/09/11/al-vento-del-nord-memorie-della-resistenza/]”. Ma mi ha detto che il titolo è sbagliato. La differenza non è da poco: il vento del Nord, il vento della libertà, di un’altra Italia, democratica, indipendente. Un’altra Italia, possibile, ma non realizzata, almeno compiutamente.

Laura fa parte di quegli uomini e di quelle donne che “volontari si adunarono, per dignità, non per odio”, e che decisero di combattere la violenza totalitaria, la ferocia della dittatura fascista e del’’occupazione tedesca. Ma nella Resistenza e nella guerra di Liberazione non c’è niente di agiografico. Scriveva Italo Calvino: “non è detto che fossimo santi”. La Resistenza è un fatto tutto umano, e come tale ha le sue luci e le sue ombre.

Riconoscerlo non è sminuirne il valore, anzi. In queste ombre si situa la vicenda di Dante Castellucci, il comandante partigiano “Facio”, l’amore di Laura in quella breve ma intensissima stagione.
_ Il suo uomo, nella paura, nella battaglia, nelle brevi soste. Una stagione che poteva valere una vita intera.

Facio fu ucciso non dai tedeschi, ma dal tradimento, dal “fuoco amico”. Laura si è battuta a lungo per affermare la verità. Ma l’altro pomeriggio, al Centro Donna, non ne ha parlato.
_ Ha ascoltato Antonietta Squillante che ne leggeva la testimonianza, il racconto. Un giovane “magro, non molto alto, dai capelli castani … i tratti del viso piuttosto marcati e duri, addolciti dal sorriso dello sguardo degli occhi neri”. Come parla l’amore, a distanza di decenni.

Laura racconta, con una verve ed una simpatia uniche: i lanci degli alleati, i combattimenti, le fughe, le offensive. Come se fosse … normale. Talmente senza retorica…
_ Erano tempi non paragonabili a quelli di oggi. Certamente. Forse. Ma molte e molti di noi sentono risuonare qualcosa che rimanda a quei tempi, forse in forme più sottili. Temono che si svuoti di significato progressivamente, silenziosamente, ma inesorabilmente, la nostra bellissima Costituzione, garantista, libera, umana, figlia di quei combattenti, di donne come Laura.

Laura racconta. la Resistenza ha potuto fare quel che ha fatto per merito delle donne, dice: erano loro che, con un etto di pane al giorno a testa, la razione permessa dai “bollini”, ci davano da mangiare, magari togliendolo alla famiglia. “Ci siamo trovati, alla fine della guerra, applauditi nelle vie delle città (nel libro c’è una foto di Laura che sfila a Reggio Emilia, radiosa). E oggi, una ministra dice che la Resistenza non deve comparire nei libri di testo, perché è scontato che ci sia.

Laura ricorda. “A camminare lungo sentieri rocciosi, cantavamo”. Lei aveva imparato, nella casa del nonno socialista, ad ascoltare, “a dire ciò che ci piaceva e che non ci piaceva”, ma a tacere, fuori dalla porta di casa. “Sono anche andata in carcere, ma non ho mai accettato di difendermi con le bugie”.

Dopo l’8 settembre, i giovani cominciarono a raggrupparsi e a cercare chi avrebbe potuto guidarli. “Facevamo arrivare a quei gruppi il vestiario, il cibo. Andavamo a sollecitare le popolazioni, perché dimostrassero simpatia a queste formazioni”. Era tutto da inventare. “I riferimenti ai partiti antifascisti … ma anche loro stavano riorganizzandosi”. Una vita difficile, poco cibo “le orecchie tese ai rumori”.

Laura racconta. sorride: “io ero abituata a mangiare con le posate ed i bicchieri giusti .. eppure, ho vissuto nelle capanne dei carbonai, con un buco nel soffitto, che, quando pioveva, ci riempivamo di fango […] avevo un 91: non mi piaceva sparare. Ma, se dovevo farlo, sparavo dritto”. “Avevo scelto il mio nome da partigiana: Mercedes, il nome di una amica. Ma mi chiamavano così e non rispondevo … allora i compagni mi dissero: “senti, sei Laura, va bene???”.
_ Racconta poche cose di Facio. Il pudore, l’amore hanno volato oltre i decenni.

“Giorno per giorno, diventano sempre più presenti gli uomini, i nomi. I miei compagni, ricordo come parlavano della mamma: tornavano bambini. Quei miei giovani compagni avevano per me un gesto sempre fraterno (e che diversità rispetto ai sospetti ed alle dicerie misogine e truci che si riversarono sulle partigiane nel dopoguerra… – n.d.r.)”.

E poi… Facio. Lo chiama così. L’amore, per una donna, è potente. Non lo affievoliscono le traversie e i decenni. “Era un ragazzo, giocava con i buchi delle scarpe. Lo avrei picchiato, lo implorammo perché fuggisse … se fossi stata lui, non mi avrebbero ammazzato”.
_ Lui invece accettò la morte dai suoi compagni. Ricordiamolo, con Laura.
E ringraziamo Laura.
_ Per lei, per loro, noi possiamo parlare di giustizia, libertà, democrazia.