Da “Notizie minime della non violenza” n.755 del Centro per la pace di Viterbo, riprendiamo questo editoriale.Non credo che le donne abbiano voglia di “festeggiare” l’otto marzo. {{E
nemmeno che si debba fissare un giorno per denunciare le calamita’ che
l’universo femminile continua a sopportare}}, dall’esclusione alle violenze,
incluso il fatto che nonostante decenni di femminismo alcune giovani ancora
accettino di omologarsi a un umiliante modello di non-persona, generato da
un immaginario maschile profondamente malato.

Inoltre, lo spettro della poverta’ e della disoccupazione – tragedie che
come la guerra colpiscono in particolare le donne e la loro condizione –
automaticamente rafforza la pesante impronta maschile del sistema di poteri
che governa le nostre vite e ne enfatizza gli aspetti piu’ regressivi. In
Italia ne abbiamo un chiarissimo esempio, con l’emergere di elementi
autocratici, razzisti e fascisti in una societa’ in larga parte pronta al
consenso servile.

L’universo femminile, in tali casi, puo’ addirittura ritrasformarsi nella
{{riserva di salvifica generosita’}} su cui sempre la societa’ degli uomini si
e’ basata in tempi difficili. Non basta, infatti, una crisi del capitalismo
per modificare la struttura sessista del potere, perche’ e’ la struttura
stessa del potere ad essere intimamente verticista e maschile, e
immodificabile fin quando riuscira’ a sopravvivere in questa forma.
Eppure, non possiamo certo rinunciare al diritto/desiderio di operare
trasformazioni che incidano sulla vita di ciascuna di noi e
sull’organizzazione delle societa’ in cui viviamo. {{C’e’ un’ipotesi
alternativa di mondo che resta continuamente fuori della scena pubblica}}.

Per {{Hannah Arendt}} una delle caratteristiche dell’eta’ moderna e’ {{la perdita
del mondo}}, intesa come perdita della sfera pubblica, ossia quello spazio
dove si puo’ apparire, dove ci si puo’ reciprocamente vedere, dove si puo’
discutere e deliberare delle cose pubbliche, dove si puo’ vivere la propria
cittadinanza attiva mediante il discorso e l’azione. Questo, per Arendt, e’
{{il senso dello stare al mondo}}.

Ma, nei millenni, l’esclusione delle donne dalla costruzione sociale, civile
e politica ha configurato {{lo spazio pubblico come una sfera separata dallo
spazio della vita,}} uno spazio “professionale”, burocratico, sempre piu’
alienante, dove si consuma a perfezione quella divisione mente/corpo e
pubblico/privato che sta alla base di una generale perdita di senso della
vita e della possibilita’ stessa di pensare il futuro.

Come potrebbe essere {{uno spazio pubblico inteso invece come spazio della
parola femminile storicamente negata?}} Potremmo pensarlo come possibile
sintesi fra pensiero e pratiche, come luogo di confronti e trasformazioni,
come laboratorio-incubatrice di forme e visioni politiche alternative.
Potremmo usarlo per andare oltre le ricorrenti emergenze che ci costringono
ad agire sempre di rimessa, come se fossimo senza peso e senza storia.

Non e’ certo di elaborazione che le donne mancano, e’ ricchissima la
produzione femminile di pensiero politico critico, ricchissimo il corredo di
saperi, esperienze e pratiche costituitosi nel tempo, nel segno della
differenza. {{Purtroppo pero’ e’ come se questa linfa, questa massa
lussureggiante e vitale restasse invisibile e muta}}. Non si trasforma in
parola pubblica e autorevole, nemmeno quando le voci provengono da sedi
istituzionali, forse perche’ questo tipo di istituzioni e di strutture non
ci corrisponde affatto, ma non riusciamo a iniziarne la trasformazione.
{{Manca una dimensione adeguata al modo di intendere e fare politica cui
puntano le donne impegnate nel femminismo,}} un modo personale, relazionale,
circolare, orizzontale… Un modo ancora in parte da teorizzare e costruire,
e una dimensione che non si fermi ai vuoti riti della rappresentanza
istituzionale tipici della democrazia formale, logora ricetta di cui ormai
abbiamo visto tutti i limiti.

Mi piacerebbe molto – e’ solo un sogno? – {{iniziare a mettere in discussione
l’idea che le uniche forme di democrazia siano queste, bianche, occidentali
e patriarcali.}} Tutto un sistema costruito sulla presunzione che non esista
altro, che non si possano nemmeno immaginare modalita’ differenti nel
deliberare, legiferare, decidere: in altre parole, nel convivere e fare
societa’.

{{Arendt}} l’aveva perfettamente capito: {{quando la rappresentanza diviene il
sostituto della democrazia diretta}}, i cittadini possono esercitare il loro
potere di agency solo il giorno delle elezioni, “ancora una volta i
cittadini non sono ammessi sulla scena pubblica, ancora una volta gli affari
di governo sono divenuti privilegio di pochi […]. Il risultato e’ che i
cittadini devono o sprofondare in letargo, prodromo di morte della liberta’
pubblica, oppure conservare lo spirito di resistenza a qualunque governo
abbiano eletto, poiche’ l’unico potere che conservano e’ il potere estremo
della rivoluzione” ({{Hannah Arendt}}, {Sulla rivoluzione}, Edizioni di Comunita’,
Milano 1983, 1996, pp. 274-275).