Amava andare in bicicletta e correre a perdifiato e cimentarsi nelle gare. Allora erano poche le donne che andavano in bicicletta, ma a lei piacevano le sfide. Ne ingaggiò una che fece scalpore. Visto che era considerata la donna più bella del mondo, con chi poteva confrontarsi? Solo con Venere. E dove si trovava una Venere alla sua altezza? Al Louvre. Dunque, senza nessuna esitazione, Lina Cavalieri si spogliò davanti alla statua e ai presenti delegò l’ardua sentenza.

La_Belle_Otero_by_Reutlinger

E dato che non le bastava, rivaleggiò addirittura con la mitica Bella Otero. Divoratrice di uomini e di ricchezze era una tipica bellezza gitana: vita da vespa, fianchi rotondi, il diavolo in corpo e una calcolatrice nel cervello.

Non era da poco osare chiamare in causa la celebrità femminile fin de siècle che aveva per ammiratori dal principe di Galles allo zar Nicola II di Russia, passando per Gabriele D’Annunzio che la incontrò facendosi precedere da una foto con questa dedica: “Alla bellezza vivente, religiosamente”.

Per non parlare del conte francese che si sparò una revolverata alla testa nella toilette del Casinò dopo averle inviato due righe tracciate in fretta su un biglietto da visita: “Mi uccido perché non posso offrirti più denaro”.

La sera stessa puntando più volte sul 13, il numero della morte, Carolina Otero vinse 300.000 franchi e uscendo dalla sala da gioco commentò allegramente: “Il conte continua a portarmi fortuna”.

Del resto la filosofia che aveva guidato la sua vita era chiara: alla giovanissima scrittrice Colette che l’intervistava, la Bella Otero rispose: “Mia cara, non dimenticare mai che nella vita di un uomo viene sempre il momento in cui deve aprire la mano”.

“E’ forse il momento della passione?” chiese l’ancora ingenua libertina Colette.

“Ma no! E’ quando gli torci il polso”.

Nata a Viterbo il 25 Dicembre 1874, la Cavalieri  fu chiamata Natalina e per diminutivo Lina.

Aveva due fratelli e una sorella, lei era la più vivace e la prediletta dal padre. Il padre discendeva da un’ottima famiglia purtroppo decaduta per motivi finanziari.

Giovanissima vendeva fiori. Fece poi un mestiere inconsueto e ormai dimenticato, la piegatrice di giornali.

A quattordici anni con il repertorio di tre canzonette e un modesto abituccio celeste esordì in un teatrino di piazza Navona. Come sciantosa debuttò in un caffè della Capitale, La Torre di Belisario. Non riceveva una paga: al termine dell’esibizione girava col piattino.

Giovanni Boldini Ritratto di Lina Cavalieri

Un  impresario dall’occhio fino la notò: la rivestì a nuovo, la ricoprì di gioielli falsi e la lanciò sul palcoscenico del prestigioso Caffè Esedra.

I gioielli veri vennero dopo.

Esordio che lei raccontò così: “Avevo 14 anni la mia buona mamma mi accompagnava a piedi dalla nostra casa di Via Napoleone III a Piazza Navona. Eravamo talmente povere che non potevamo permetterci il lusso di un tram. Del mio ingresso nella vita artistica conservo ricordi confusi: per orchestra un pianoforte scordato e flebile; la scena quattro quinte scolorite e un fondale pieno di toppe; il pubblico facile all’entusiasmo e alla sonnolenza; il programma alcune canzoni e una farsa”.

Successi su successi nel cafè-chantant. Il trampolino di lancio per l’Europa fu Parigi dove alle Folies Bergère cantava canzoni napoletane.

Accompagnata da un’orchestrina tutta al femminile al suono di chitarre e mandolini.

Ormai era fatta. La sua popolarità varcò le frontiere e la ritroviamo tra i tavolini dei locali notturni più in voga d’Europa. In mezzo mondo circolavano cartoline con il suo volto incorniciato da un boa di struzzo.

Dotata, oltre che di fascino e di talento, anche di una grande ambizione, decise di avviarsi ad una carriera più vasta e forse più “nobile”. Studiò canto e divenne soprano.

Con la cocciutaggine che dicono tipica delle ciociare ci riuscì senza, tuttavia, rinunciare al suo personaggio di donna fatale: si orientò, così, verso ruoli  che le permettevano di sfoggiare acconciature sontuose e splendidi gioielli, finalmente veri omaggio dei suoi ammiratori spendaccioni.

Una fama che esplose anche in America quando, al Metropolitan di New York, al termine del duetto d’amore di “Fedora”, baciò appassionatamente Caruso sulla bocca. Il maggior quotidiano newyorkese titolò: “Cavalieri: the kissing Primadonna”.

Oltre a collezionare anelli e collier,  mise insieme una notevole quantità di amanti e anche di mariti: ben cinque. In questo anticipando i vezzi delle dive hollywoodiane di ieri e di oggi.

Il primo marito fu il Granduca di Luchtenberg, sposato a Pietroburgo e ben presto abbandonato a fronte della pretesa che lei lasciasse il teatro. Stessa sorte, a seguito della stessa richiesta,  subì il secondo, addirittura il re del Kazan che, a quanto pare, non resistette al dolore e si lasciò morire dopo aver sposato una sosia del suo grande amore perduto. Volle essere seppellito a Firenze, città preferita della Cavalieri.

Avere la fede al dito si vede le piaceva quanto cantare dato che si sposò nuovamente. Ma nuovamente divorziò, prima con un milionario americano di cui restò la moglie – udite udite –  per soli 7 giorni,  poi con un tenore francese. Infine sposò un compagno d’arte, Pietro Muratore che riuscì dove gli altri avevano fallito: convincerla ad abbandonare le scene, ma subì, comunque, la stessa sorte dei predecessori.

Divorziatasi passò a nozze con Giuseppe Camperai che le rimase accanto fino alla vecchiaia.

Tra i sedotti e abbandonati ci sarebbe anche il principe Bariatinskij tanto ricco da regalarle, tra l’altro, una splendida collana di smeraldi già appartenuta a Lady Hamilton.

Interpretò alcuni film, incise dischi e mise a frutto la sua straordinaria avvenenza aprendo una “Maison de beauté” in Avenue Victor Emmanuel, a Parigi, frequentatissima dalla migliore nobiltà di Francia e dell’intera Europa. Poi, quando il suo viso non serbò più tracce del passato splendore, si nascose nella sua villa di Fiesole. Una cartomante parigina le aveva predetto che un giorno sarebbe morta di morte violenta.

E infatti accadde: in un attacco aereo del 6 marzo 1944 su Firenze, una bomba distrusse la sua villa seppellendola sotto le macerie:.

Così tornò nel nulla una delle più belle donne del mondo: Lina Cavalieri.

In quegli anni erano molte le donne che sceglievano la strada “dissoluta” del palcoscenico. Rullo di tamburi. Dalla platea si leva un grido: “La mossa! La mossa!” La sciantosa si fa un po’ pregare, poi esegue. Brusii, applausi, fischi, complimenti senza peli sulla lingua, gazzarra.

Chi inventò la “mossa”? Cioè quell’audace roteare di anche che fece letteralmente impazzire le platee dei varietà ai primi del novecento? Si è sempre sostenuto una sciantosa napoletana, vista anche la fortuna che queste ultime ebbero sui palcoscenici della Capitale. Ma a contenderle il primato è una romana, Maria Campi, nata nel 1871 e morta nel 1963. Debuttò giovanissima nei piccoli caffè-concerto trasteverini, ma si fece subito notare per charme e vivacità ed eccola primadonna nella più prestigiosa Sala Umberto.

Lo scrittore più alla moda negli anni dieci-venti Guido da Verona per lei era disposto a fare follie. Ma di lei erano tutti innamorati al punto che sui muri di Roma parafrasando versetti in voga era scritto: “Maria Campi è quella cosa/che innamora il giovanetto/se ci vai una volta a letto/figlio mio non campi più!”

Il “cavallo di battaglia” della Campi era la canzone “Ninì Tirabusciò” che aveva come protagonista una sciantosa che con fare disinibito alzava la sottana e quando il pubblico era cotto al punto giusto, si lanciava nella “mossa”. Monica Vitti interpretò, nel 1970, per la regia di Marcello Fondato, il film “Ninì Tirabusciò, la donna che inventò sulla mossa” creando ulteriore confusione sulla primogenitura della sospirata esibizione.

Nel 1913 la Campi si recò in Spagna per una tournée. Fu lì che imparò la rumba. Che successone al suo ritorno proporre al pubblico romano un ballo così piccante ed esotico! Le rivali di sempre, le napoletane e le più agguerrite che mai, le parigine, furono immediatamente sbaragliate.

Nei primi del novecento l’apparizione della « donna fatale » divenne una costante della realtà ma anche delle pagine letterarie. Non solo da parte degli scrittori uomini che ne misero a fuoco la ferocia e l’erotismo – dalla Salambò di Baudelaire alla Narcisa di Giovanni Verga – ma furono spesso scrittrici, donne stravaganti esse stesse – a raccontare le loro avventure calandosi nei panni di eroine immaginarie.

Sia le une che le altre, intendo dire sia le scrittrici come le loro protagoniste, si muovono tra arredamenti sontuosi, carichi di ninnoli, le atmosfere grevi di profumi, compresi i fumi dell’oppio. Hanno volti febbrili e lunari,  cascate di capelli inanellati e serpentini e naturalmente gesti felini.

Delle vere e proprie pantere dallo sguardo magnetico e ipnotizzante e dal passo felpato ma pericoloso.

C’è, insomma, una continua e inebriante ricerca dell’insolito, del torbido.

Avevano nomi pretenziosi queste scrittrici di stampo dannunziano: Regina di Luanto, Donna Paola, Contessa Lara… talvolta la loro vita era più turbolenta di quella dei loro personaggi. Insofferente alle convenzioni e al matrimonio è Anna Roti, ovvero la Regina di Luanto, che si separa presto dal marito, patrizio fiorentino.

Celebre per la sua romantica e tormentata passione per Guido Gozzano, Amalia Guglielminetti.

Uccisa dall’ultimo dei suoi amanti la Contessa Lara che, poco dopo le nozze, aveva visto cadere in duello, ferito dal consorte, capitano dei bersaglieri, il biondo impiegato di banca cui era legata.

Nel romanzo della Contessa Lara “L’innamorata”, già il titolo è una dichiarazione d’intenti, la diva del circo Leona si lega al contino Paolo Cappello che per lei verrà ucciso in duello.

Più espliciti di così si muore!

Le vicende della Contessa Lara come di altre primedonne dell’epoca erano oggetto di morbosa curiosità.. Nelle tavole de  “La Domenica del Corriere” l’eco degli scandali veniva riproposta ai lettori che ne aspettavano con ansia l’uscita.

E che dire della scrittrice Mura, ovvero la Contessa Tarnowska, protagonista di un celebre processo a sfondo passionale che avvinse l’Italia umbertina?

Nei romanzi di Annie Vivanti a primeggiare, è una figura di donna perversa, sensuale, a volte non bella ma caratterizzata da un fascino divorante come la Lady Randolph di  “Naia tripudians”.

A Giulio Parise, la scrittrice Sibilla Aleramo in un moto di assoluta sincerità scrisse: “Brividi nella carne. Il desiderio di te mi agguanta fino a farmi svenire. Sono a letto. Tengo il blocco di carta sulle ginocchia e la matita in mano, ma tra una frase e l’altra passano secoli… Una sensazione selvatica, pudibonda e triste, una brama di fuga, di annientamento. Nessuna poetessa ha ancora, in un superamento eroico, analizzato ed espresso questa condizione umana e sacra. Ci riuscirò io?”

Sibilla Aleramo è il suo pseudonimo. Rina Faccio è il suo vero nome.

A chiamarla così è stato lo scrittore Giovanni Cena.

Violentata da un impiegato del padre, Rina lo dovette sposare nel 1893.

Nel 1902 abbandonò il marito e il figlio nato da questa unione infelice per andare a Roma a vivere appunto con Giovanni Cena.

Folgorante la serie dei suoi innamoramenti: Cardarelli,  Papini, Boccioni, Cascella, Boine, Rebora, Campana e tanti altri. Si direbbe che ogni amore, per Sibilla, sia anche un’occasione letteraria.

Pubblicò, infatti, nel 1906 il romanzo “Una donna” che  riecheggia la storia della sua vita e che le diede fama internazionale.

Per chiudere in bellezza, visto che di bellezze, comunque, si tratta, rivolgiamoci al passato riserviamo un posto d’onore a Imperia.

Primavera.

Serena.

Selvaggia.

Luna nuova.

Dama onesta.

Alcune si ispiravano all’antica Roma e all’antica Grecia e così si ribattezzarono Faustina.

Virginia.

Cornelia.

Adriana.

Flora.

Pentesilea.

Nomi di dee e di ninfe perché molte di loro pensavano di esserne la magica reincarnazione. A volte, per evitare confusione, facevano seguire il nome dal paese d’origine. Leonarda portoghese, Angiola greca, Caterina napoletana, Paolina romana, Serafina veneziana.

Alcune, accompagnandosi con il liuto e con l’arpa, cantavano e ammaliavano come Sirene.

Le cortigiane veneziane del seicento sono state, per dissolutezza, fantasia ma anche cultura, le vere antesignane delle donne fatali dei primi del novecento.

Se ne stavano paludate in maestosi abiti, troneggiavano su grandi tacconi – non solo un vezzo quelle scarpe alte mezzo metro ma una necessità: non bagnarsi con il fango delle calli –  la folta capigliatura arrotondata in cornetti.

Oltre Venezia è Roma la città che ne contendeva il primato: tanto che qui la minaccia di un bando delle meretrici rientrò per la paura che la città si spopolasse.

Regina di cuori – in primis quello di Cesare Borgia – e di proprietà immobiliari (tre grandi case con giardino) era Fiammetta che alla sua morte lasciò una somma considerevole per la costruzione di una cappella nella Chiesa di Sant’Agostino a Roma considerata la chiesa delle cortigiane.

Quando Lorenzina andava alla messa 10 uomini si offrivano di accompagnarla, 20 la seguivano e 5 l’aspettavano fuori.

Beatrice spagnola non usciva di casa senza una corte di marchesi, ambasciatori e duchi.

Tullia preferiva gruppi di adolescenti e Madonna Nicolosa incedeva cantando nascosta da enormi ventagli con un codazzo di giovani, procaci cameriere.

Roma, a causa del potere temporale del papa,  impose un freno al dilagare del fenomeno e poiché alla sfrenatezza dei costumi si accompagnava quella degli abiti promulgò delle leggi restrittive.

Ho qualcosa da aggiungere a proposito de papi. Masina era la favorita di Giulio II, prima che salisse al soglio pontificio… chissà se anche dopo?

Quel che è certo è che molte di loro godettero della protezione di famosi cardinali. 

Venezia, al contrario, era più tollerante e le accolse da ogni parte d’Italia.

La Serenissima, però, non era altrettanto condiscendente nel 300. Mi risulta, infatti, che le cortigiane dovevano rientrare dopo la terza campana pena una multa e 10 frustate. Le frustate salivano a 15 se venivano sorprese ad esercitare durante le feste di Natale e di Pasqua e negli altri giorni santi.

Io so per certo che sia nel ‘300 come nel ‘500 furono delle contribuenti esemplari: tutte pagavano regolarmente le tasse.

S’esser del vostro amor potessi certa

per quel che mostran le parole e ‘l volto,

che spesso tengon varia alma coperta;

se quel che tien la mente in se raccolto

mostrasson le vestigie esterne in guisa

ch’altri non fosse spesso in frode còlto,

quella tema da me fora divisa,

di cui quando perciò m’assicurassi,

semplice e sciocca, ne sarei derisa:

«a un luogo stesso per molte vie vassi»,

dice il proverbio; ne sicuro è punto

rivolger dietro a l’apparenzie i passi.

Questi versi sono di Veronica Franco che le sue battaglie amorose le conduceva in punta di penna e in punta di spada. Per risolvere le sue diatribe amorose, infatti, faceva ricorso a delle tenzoni in versi ma ingaggiava, altresì, dei veri e propri duelli. Valente poetessa e spadaccina era una delle cortigiane più rinomate di Venezia. Sua madre stessa era stata una cortigiana.

Giovanissima sposò un medico ma se ne separò presto. Ebbe sette figli di cui tre soltanto sopravvivranno che allevò con l’aiuto dei presunti padri, appartenenti tutti a nobili famiglie.

La sua celebrità aumentò specialmente dopo l’incontro con Enrico di Valois, futuro re di Francia.

La Serenissima riservò al principe una grandiosa accoglienza.

Al Palazzo dei Dogi venne offerto un banchetto cui parteciparono tremila convitati. La sala del Gran Consiglio fu trasformata in un’immensa sala da ballo. Durante queste feste avviene l’incontro tra il principe  allora ventitreeenne e la cortigiana. Un po’ come nelle favole.

Solo che Veronica non era come Cenerentola..

Promise ad Enrico di dedicargli  il libro di poesie che stava scrivendo. Lui dichiarò che ne avrebbe sostenute le spese. Ma non mantenne la parola e lei lo dedicò al Duca di Mantova.

Nonostante fosse una cortigiana e nonostante le stoccate che colpivano gli uomini al petto e non solo perché se ne innamoravano ma anche perché li batteva a duello, il suo cuore non disdegnò mai la tenerezza. Come dimostra questa sua poesia.

Questa la tua fedel Franca ti scrive,

dolce, gentil, suo valoroso amante;

la qual, lunge da te, misera vive.

Non così tosto, oimè, volsi le piante

da la donzella d’Adria, ove ‘l mio core

abita, ch’io mutai voglia e sembiante:

perduto de la vita ogni vigore,

pallida e lagrimosa ne l’aspetto,

mi fei grave soggiorno di dolore;

e, di languir lo spirito costretto,

de lo sparger gravosi afflitti lai,

e del pianger sol trassi alto diletto.

Andiamoci piano con i languori. Inseguiamo piuttosto la strada più spericolata dei piaceri. Le meretrici a Venezia abitavano una zona chiamata Ca’ Rampani che arrivava fino al Ponte de le Tette. E’ proprio così non è un modo di dire.

Non sarà che nel tempo il termine carampana sia diventato un dispregiativo a causa di questo quartiere malfamato? Chissà!

Veronica Franco non ebbe una vita facile. Fu molto osteggiata non solo dalle autorità ma anche dagli invidiosi. In molti sostenevano che la cortigiana si dedicasse a pratiche stregonesche per far innamorare gli uomini e fin qui tutto regolare. La cosa curiosa è che le si attribuisse anche il potere di far ritrovare gli oggetti smarriti. Il che potrebbe rappresentare una virtù più che una colpa!

Il fatto grave, per i suoi accusatori, era che per le sue pratiche magiche si servisse dell’acqua benedetta e dei ramoscelli d’olivo prelevati in una chiesa vicino a casa sua. Con un colpo di genio Veronica si presentò davanti al tribunale del Santo Uffizio di Venezia portando ai giudici, quegli oggetti definiti “smarriti” ma che in realtà le erano stati rubati dai suoi detrattori.

A chi le rimproverava di essere una cortigiana rispondeva: “Non sarò virtuosa, ma riconosco e apprezzo la virtù altrui”.

Non sarà che il vero peccato di Veronica Franco fosse di essere oltre che una formidabile seduttrice,  un’ intellettuale di rango?