Pubblichiamo con piacere il testo che Silvia Zanolli ci ha inviato in adesione alla campagna «Unite. Azione letteraria» contro la violenza di genere.


C’è ancora domani. O è sempre il solito ieri?

Sfiorava già il genio quando dava volto, voce e metrica alla Magica Trippy; prima ancora, quando gorgheggiava per Boncompagni o la Gialappa’s. Oggi, la brava Paola Cortellesi fa ben di più: ne parliamo all’indomani del salto di qualità con il film-evento 2023 “C’è ancora domani” che l’ha resa artista ancor più completa, preziosa per la società e per il singolo spettatore. Anzi (derogando per una volta al maschile sovraesteso che connota la nostra lingua e la relativa cultura) la singola spettatrice, che difficilmente può esimersi dal sentirsi chiamata in causa da un’opera su un passato nazionale fin troppo recente, addirittura affine al presente nel fare eco all’odierna violenza di genere insita in tanti – troppi – contesti sociali.

Come nel gender gap ante litteram candidamente confessato dall’ombrellaio – uno dei tanti padroni di Delia – per cui lei, campionessa di esperienza e abnegazione, si scopre pagata meno del nuovo arrivato e, impotente, non può che chinare il capo. Ma anche oggi, se solo si parlasse di stipendi con la stessa franchezza con cui si parla di temi ben più intimi, cosa scopriresti sul salario del tuo imberbe ma virile vicino di scrivania?

Come l’accusa di Ivano, un magistrale Valerio Mastandrea nel ruolo del marito manesco giustificato dal comodo alibi di due guerre: “Manco la serva sai fare”.

Parole che, mentre sembrano unire nella sacra indignazione la platea cinematografica, risuonano  però così simili ad altre sentite ai giorni nostri. Battute rifilate da nonni, padri e suoceri, ma anche  da insospettabili coetanei, fino ad arrivare persino alla generazione dei figli nativi digitali, ma non necessariamente nativi rispettosi: “L’importante è che tieni bene la casa”, “Basta che tu faccia la minestra buona”, “Tu lascia fare a chi sa le cose”.

Spunti che “C’è ancora domani” fa emergere a bizzeffe, portando il pensiero a vari momenti in cui tu – femmina della specie nel XXI secolo – sei trattata come Delia, anche se in modo più sottile e subdolo.

Tanti momenti – troppi, di nuovo.

Come il programma tv del preserale che, tra concorrenti che si affannano a cercare sinonimi e metonimie, infila due scosciate a dimenarsi in un insensato stacchetto. E no, non è uno dei canali di berlusconiana prurigine: è la tv di Stato, durante un programma per famiglie che si pregia di parlare forbito.

Come l’obbligo di dire “Buongiorno a tutti” a un uditorio di quindici donne e un uomo.

Come la telefonata in ufficio, dove almeno una volta nella vita l’interlocutore ti chiederà “Signora o signorina?” sorvolando sulla tua qualifica professionale (della quale comunque, con ogni probabilità, l’italiano non prevede la declinazione al femminile).

Come il buio, le strade vuote, gli angoli ciechi: indiscutibili regni dei maschi, preferibilmente in branco, che si annunciano a distanza con sghignazzate e fischi, e non puoi che sperare che quella distanza scelgano di mantenerla. Perché, in caso contrario, loro arriveranno pestando i piedi e leccandosi le labbra, e tu non potrai scegliere niente, nessuna direzione sarà più possibile; verrai apostrofata in mille modi e dovrai ascoltarli tutti pregando di cavartela indenne, occhi bassi e bocca serrata in risposta a battute pesanti come lapidi.

Come la difficoltà di riempirti il piatto se sei magra, ma anche se sei grassa. Di farlo senza suscitare i commenti altrui (“Hai bisogno d’affetto o sei in preciclo?”) né sentire il bisogno di giustificarti (“Non dovrei… beh, stasera salto la cena”). Come se la tua fame, o la tua taglia, o entrambe potessero mai essere questioni squisitamente personali e non collettive, addirittura politiche.

Come la certezza che come fai, sbagli. Sbagli a definirti mamma e sentirti appagata per questo. Sbagli a concentrarti sul lavoro e osare esserne soddisfatta. Sbagli a studiare vent’anni per poi chiedere un part-time, altrimenti come fai con un figlio. Sbagli a farlo, ’sto figlio, ché il capo ha puntato su di te; ma sbagli anche a non farlo ché poi te ne penti. Sbagli a sperare di dargli anche il tuo cognome, ché poverino quando va a scuola sai che fatica a scrivere un nome così lungo. Se però lo chiami Carlo Alberto Gianmaria col cognome del marito, vedrai che nessuno ti fa pesare la lunghezza.

E di’ la verità che non lo sapevi, di potergli dare anche il tuo cognome, e che da un paio d’anni dovrebbe avvenire in automatico: ma chissà perché nessuno te lo dice e neanche ci pensa, tanto meno l’impiegato dell’anagrafe.

Come l’incapacità del giornalismo di dire “ministra”, “assessora”, o semplicemente Meloni o Schlein senza l’immancabile “la” a femminilizzare, e quindi oggettivare, un cognome altrimenti così saturo di fama e potere. E non sono citate Clinton, Merkel o von der Leyen giusto perché, per amor di precisione, nessuna di loro ci è nata con quel cognome.

Come l’imbarazzo di inneggiare in mondovisione alla “prima donna” che riesce finalmente a fare qualcosa che i suoi omologhi svolgono da sempre, senza troppo clamore. Ricordandoci, in questi casi, che l’America ha preferito uno come Trump a una presidente donna.

Come la Tampon Tax, uscita dalla porta e rientrata dalla finestra con la nuova Legge di Bilancio.

Come il voto alle donne, che Delia ci ricorda essere evento dell’altro ieri nella storia umana.

Come “È un lavoro da uomini”, come “Le donne sono le peggiori nemiche delle donne”, come “E fattela una risata, si scherza”.

Come “Sei anche carina, non mi sembrava una femminista arrabbiata. Magari sei pure lesbica”, come “Hai voluto la parità? E adesso arrangiati”.

Come la tua voce che viene regolarmente coperta da una più profonda senza che nessuno si scomponga, e magari ti si spiega cosa e come devi fare anche se l’esperta saresti tu.

Come l’ovvietà con cui accetti il dottore e l’infermiera, il direttore e la segretaria, il cantante e la corista.

Come l’omicidio passionale, il delitto d’onore, il coprirsi le spalle in chiesa che chissà perché  due spalle scoperte in agosto sono poco rispettose, il dress code che richiede il tacco anche se poi non riesci a camminare, e devi pensare a non cadere e i tuoi passi saranno incerti e i tuoi pensieri distratti. E guai se ammetti che il tacco è una tortura, difendi l’ossimoro “tacchi comodi” e ti impegni a crederci per adeguarti al contesto professionale, seduttivo e collettivo che ti vuole perennemente instabile.

Come l’epidurale, che se il parto fosse maschile sarebbe ovvia, gratuita e al gusto birra. Invece se la fai un po’ te la devi sudare e poi ti tocca giustificarti con tutti, a partire dalle tue conoscenti che compatte sostengono un travaglio “più naturale possibile”, ché neanche Eva ebbe una tracotanza pari alla tua. 

Come “Saranno mica questi i problemi del Paese”: certo ci sono cose più gravi del quotidiano svilire, zittire, oggettivare e rendere minoranza una comunità pari alla metà del popolo terrestre.

E poi povera Giulia e povere tutte, già dieci casi solo a gennaio.

Come la prima scena di “C’è ancora domani”, che forse fa sobbalzare meno spettatori rispetto a una scena di “Bohemian Rhapsody” o “I segreti di Brokeback Mountain”.

Come l’incapacità di capire davvero, se non ci sei nata con due cromosomi X.

Come il palese sollievo degli illuminati accompagnatori maschi nell’uscire dal cinema e dimenticarsi di Delia, rassicurandosi nella propria differenza da Ivano per il mero fatto di aver visto il film.

Come l’amarezza che ti monta dentro decine di volte al giorno, che ti fa chiedere “C’è davvero domani? O siamo ferme a un oggi che non è altro che il solito ieri, giusto un pochino abbellito dal politically correct?”.

Sono ancora tanti i momenti in cui viene spontaneo farsi questa domanda.

Tanti. Troppi.

#unite #rompiamoilsilenzio


Info sull’autrice:
Silvia Zanolli vive a Verona, dove è nata nel 1979, con il marito e il figlio di quasi 6 anni. Laureata in Scienze della Comunicazione a Bologna con una tesi su comunicazione pubblicitaria e identità di genere, divide la sua quotidianità tra il ruolo di Communication Specialist presso un’importante azienda cosmetica e la lettura compulsiva di narrativa di ogni genere, tempo e latitudine. Già collaboratrice di testate free press e magazine digitali, ha pubblicato con Edizioni Montag il romanzo “L’arte tradita” e il racconto “Signor Preside”; nel 2020 è presente nell’antologia #iostoacasa di Edizioni Pendragon con il racconto “Già primavera”.