Credo che questa sarà probabilmente l’ultima volta che sosterrò la parte di Nora (…) attraverso lei voglio cercare di scoprire a che punto mi trovo come donna oggi.

Con queste parole Liv Ullmann nel suo Cambiare (L.Ullmann, Cambiare, Milano, Mondadori,1976), comunica quanto in Casa di Bambola, più volte e magistralmente da lei interpretato, diventa dichiarazione di intenti nel proprio percorso identitario.

L’autrice nasce nel 1938 a Tokio, in un piccolo ospedale. Un topolino attraversa la stanza, lo si considera di buon auspicio anche se l’infermiera chiede alla puerpera se preferisca dare di persona al marito la cattiva notizia ovvero la nascita di una bimba. Un presagio, come accennano già queste poche righe all’inizio del libro, di eventi duri da affrontare, soprattutto perché la morte del padre, avvenuta quando Liv aveva 6 anni, scandirà la vita di una delle attrici più famose, l’interprete forse più nota, dei film di Bergman, che la definiva il suo Stradivari.

Liv Ullmann ospite del Giffoni Film Festival nel 1990

Cambiare è un testo costruito da pensieri che portano l’autrice in giro per il mondo e dentro se stessa, con la volontà di buttar giù ricordi, anche quelli del più breve dei viaggi. Sue sono le illuminazioni, con la caratura del flash emotivo, nitide di una specifica, inconsueta e lapidaria profondità, frutto di un’analisi che tormenta e non si suggella nel mero pensiero logico, pur compiuto.

Disomogeneo ed oscillante, potente per la forza di un tempo ascritto a spazio pensabile, molto intimo, il libro è stato diviso in quattro capitoli. Poco definibili come parti a se stanti, sono piuttosto simboli di un riandare al passato nell’amalgama del presente: ci offrono una narrazione scomoda di un’esistenza che punge, una vita sul cui merito si discute divaricando eventi al fine di farne risaltare i più nascosti e difficilmente esprimibili significati.

Voglio scrivere dell’amore, dell’essere una creatura, della solitudine, dell’essere donna.

I cambiamenti sono descritti a velocità duplice: alla subitaneità, quasi casuale, del mero fatto, quell’affronto fulmineo che sembra fare il fato all’esistenza dell’autrice, si alterna un tormento conciso, una meditazione avvitata nel disincanto, che porta stabilità all’ immagine offerta da Liv stessa. Un ambiente intimo, in grado di condensare la consapevolezza del dolore, il cambiamento al quale si aspira ,l’irresolutezza nascosta nei travagli, molti e perduranti , i dubbi nel realizzare un sogno ove non si riesce a leggere il rovescio di qualcosa che luccica.

Per quanto la Ullmann sia spesso stata sotto la luce vivida dei riflettori, esibendo il suo corpo, il suo vuoto, anche le sue emozioni, dover fare luce su di sé diventa un’operazione altra :deve viversi una sincerità nella quale si sente vulnerabile, senza alcuna difesa. Una scrittura dunque mai banale o superficiale, tesa ad intercettare vissuti in relazioni e comportamenti, conquistati con linearità sconcertante.

Un tempo desideravo starmene nella tasca di qualcuno (…) fuori ogni volta che mi facesse comodo. Adesso tendo l’orecchio ai lamenti delle donne che immagino chiuse nella tasca di qualcuno (…) Quella che molti anni fa ero io, o che credevo di essere….è una voce impaziente…non la voglio ascoltare, perché so che non ha nulla a che fare con la mia vita adulta,(…) mi rende incerta.

Una donna sensibile, vera, per la quale la sicurezza talvolta diventa forte nel momento in cui viene desiderata. Perché solo allora è al sicuro. Ma anche capace di dare voce a sentimenti conflittuali.

Mi accade ancora (benché intimamente mi prenda a calci) che quando sono con un uomo mi accorgo che gli chiedo scusa per la mia forza. Perché vedo in lui il più debole (…) forse spaventato da quella mia forza.

E’una narrazione che mostra indugi e scatti, lo conferma l’uso e la scelta dei tempi, un raccontare cesellato nella consapevolezza di scartare inconsapevoli resistenze dettate dalla ritrosia .

Non so che cosa sarà di me (…) devo trovare la mia strada Non diventerò mai la solitudine che ho conosciuto da piccola (…) ,non volevo riconoscere di avere desideri inappagati.

Forte il bisogno di identificarsi ed al tempo stesso la capacità di far identificare nelle sfaccettature contraddittorie che costellano la sua vita di donna più che la carriera di attrice. L’autrice distilla immagini, ricordi, impressioni, evita di cedere ad un ritmo letterario accattivante per poter sostenere analisi impietose, amare, ma senza malanimo. In qualche modo si respira l’arte di un’attrice che diventa anche regista della sceneggiatura dei propri ricordi, col fine, spesso dichiarato, di cercare di continuo di cambiare se stessa.

Essere donna è avere gli stessi bisogni, gli stessi desideri di un uomo. Abbiamo bisogno di amore e desideriamo darne. Magari tutti potessimo accettare il fatto che non vi è differenza fra noi quando si tratta di valori umani. Io ho le mie mestruazioni e la mia menopausa (…) e lui ha il suo prestigio, le situazioni difficili sul lavoro, il suo timore di divenire calvo e impotente ed i suoi dubbi.

Sono pagine complesse, piene di sfaccettature, nelle quali il tema delle relazioni con se stessi e con gli altri occupa un ruolo da protagonista: in certe pagine aleggia il tormento che si percepisce in Persona, un film cupo, pieno di metafore e suggestioni ,dicotomico. Attraverso le parole che Alma rivolge alla mutacica Elisabeth Vogler, impeccabilmente intrepretata dalla Ullmann stessa , prendono vita la dolenzia di essere e il timore dell’altrui sguardo.

Tu insegui un sogno disperato (…) questo è il tuo tormento. Tu vuoi essere, non sembrare di essere; essere in ogni istante cosciente di te e vigile, e nello stesso tempo ti rendi conto dell’abisso che separa ciò che sei per gli altri da ciò che sei per te stessa…Questo ti provoca un senso di vertigine per il timore di essere scoperta, messa a nudo, smascherata, poiché ogni parola è menzogna, ogni sorriso una smorfia, ogni gesto falsità.

Il testo, frutto anche di una buona traduzione, si mostra attraverso una prosa quasi fisica e mette spesso in primo piano un monologo interiore, tipico dei romanzi psicologici : l’autrice si mostra decisa a voler dare ordine e significati stabili alle vicende narrate.

Ogni giorno, perché qualcosa che faccio mi colpisce,, sento quella ragazzina che ho dentro. Quella che molti anni fa ero. O che credevo di essere.

E’ un diario che dialoga col lettore, coinvolto perché Liv Ulmann non scrive per sé, scrive di sé, lei che è cresciuta in un mondo fatto solo di donne.

Mio padre è rimasto nella mia vita per sei anni e non mi ha lasciato un vero ricordo di sé (…) ma piuttosto il vuoto (…) che diventa una specie di buco profondo nel quale vanno a depositarsi le esperienze successive.

Vani quanto strazianti risulteranno i tentativi di una bimba di far tornare il padre colmando di fiori e bambole la tomba del proprio genitore.

Come sottolinea Yardenne Greenspan Liv diventa anche quella bambina che ricorda, che vive il vuoto, una creatura che per naturale inclinazione tende a privarsi di propri desideri e bisogni per la soddisfazione degli altri: questo la rende un’attrice straordinariamente empatica, una che raccoglie le idiosincrasie degli altri come se fossero gemme (…) una in grado di svuotarsi (…) e riempirsi con i sogni, i desideri e le storie dei suoi personaggi. (Liv Ullmann’s Changing and Childhood Memories in https://blog.pshares.org/liv-ullmanns-changing-and-childhood-memories)

Sempre più esplicito il riandare al ricordo dell’infanzia, la propria e quella della figlia, verso la quale l’autrice denuncia spesso sensi di colpa perché il guardare la figlia Linn riporta alla mente di madre propri nodi irrisolti ed inadeguatezze percepite come antiche ferite.

Un trauma può costringere una persona a crescere troppo in fretta, ma può anche arrestarla in uno stato di perpetua infanzia, o in uno sforzo verso l’infanzia, cercando per sempre ciò che è stato tolto.

E nel diventare madre il processo di identificazione con la propria madre interna e col proprio sé bambino in qualche modo assottiglia la pelle, rende più consapevoli ed anche più vulnerabili alle ferite di chi generiamo.

Pure in Yardenne Greenspan è viva questa risonanza: percepisce dal testo dell’autrice norvegese quanto il senso del dovere verso i figli possa venire a scapito del dovere verso se stessi, nella compulsione a fare in modo che gli altri siano contenti, concludendo che tanto più presenti sono le lotte e le infelicità dell’infanzia tanto più forte è l’identificazione della Ullmann con la piccola figlia Linn.

Ciascuno dei cipigli di figlia diventa un ricordo doloroso in attesa di salire in superficie, ciascuna delle grida di frustrazione il potenziale per rivivere un turbamento del passato. Forse perché una madre è pronta ad afferrare il dolore e a non lasciarlo andare.