Dopo 20 anni di politica delle donne, con le donne, da un anno ho deciso di misurarmi di nuovo con la politica istituzionale, in una dimensione mista. Prima della costituzione della Sinistra l’Arcobaleno, a Firenze e in altre città erano nate associazioni con l’obiettivo di ricostruire una politica di sinistra. A Firenze questa cosa si chiama Associazione X una sinistra unita e plurale e oggi sostiene le liste della Sinistra l’Arcobaleno.
In questi giorni sto seguendo e facendo attivamente una della campagne elettorali più faticose fra quelle che ricordo. E ne ricordo tante, visto che queste cose mi incuriosivano anche quando non ci capivo niente, e una famiglia sostanzialmente apolitica non aiutava molto in tal senso.
Seguo anche la discussione su alcune liste intorno alle varie opzioni possibili. Possibili per me, per le compagne con cui faccio politica (quella grande, quella vera, quella che non si esaurisce nel livello istituzionale). Non sono molte, queste opzioni.
Astenersi, con le opzioni successive: non andare a votare, inserire nell’urna la scheda bianca (poco raccomandabile), annullare la scheda, farla vidimare e poi far verbalizzare il rifiuto (quasi un boicottaggio, vista la macchinosità dell’operazione, ma forse proprio per questo interessante).
Votare a sinistra, scegliendo fra la Sinistra l’Arcobaleno e una delle altre (quattro!) liste che compongono l’ennesima diaspora.

Io voto da 40 anni: essendo diventata maggiorenne a 21 ho votato per la prima volta nel 1968, anno in cui finisce la serie delle elezioni politiche a scadenza regolare e comincia invece un lungo periodo di elezioni anticipate.
Ho quasi sempre votato, anche quando facevo riferimento ai gruppi della sinistra extraparlamentare, che all’inizio praticava l’astensionismo. Credo di aver saltato giusto un paio di scadenze amministrative, ma alle politiche il richiamo del “dovere di esercitare un diritto”, che altri e altre a caro prezzo avevano ottenuto anche per me, prevaleva sulla tentazione di non votare.

Tentazione ricorrente, soprattutto quando non fu più possibile votare una compagna; non una donna qualsiasi, ma una con cui avessi un sentire comune: in quei casi ho dichiaratamente scelto fra diverse liste, perché se quella a me più vicina non candidava donne in posizione di eleggibilità, pensavo non meritasse il mio voto.
Gli anni dell’uninominale maggioritario in questo senso sono stati tremendi. Mi spaventa che ancora adesso qualcuna li ritenga anni in cui “era possibile scegliere”! Mi preoccupa la mancanza di autocritica di tante donne, anche compagne con cui adesso condivido un percorso, che non colgono tutta la negatività di quel passaggio.

Dell’attuale legge elettorale si può e si deve dire tutto il male possibile. Ma ha offerto ai partiti, che si riempiono la bocca con “la valorizzazione delle donne come risorsa per la democrazia”, e tutti quelli della sinistra in un momento o in un altro l’hanno fatto, di mettere in lista tante donne. Poteva essere una sfida: a noi, per dirci “vediamo cosa riuscite a fare?”, ma anche agli altri partiti, che queste dichiarazioni hanno cominciato a farle più tardi. Quando dico tante, intendo quel 50% che sta nella legge di iniziativa popolare su cui abbiamo raccolto firme l’anno scorso (e grazie all’UDI per questo). O poco meno.
Intendo liste elettorali a cerniera (qualche volta con “una donna, un uomo”, che non è lo stesso che “un uomo, una donna” se il numero degli eletti è dispari…). Già, perché con le liste bloccate (che fanno schifo, ma è la seconda volta che le segreterie dei partiti si turano il naso e le presentano) era possibile garantire l’elezione di tante donne.

Così non è stato. E questo sarebbe per me un motivo forte per non votare, il più forte di tutti, perché implica un giudizio totalmente negativo su una classe dirigente, su una nomenclatura inamovibile e stupidamente insensibile al distacco profondo fra sé e la cittadinanza attiva.
Non la “gente”, l’indistinta folla del VDay, ma le donne e gli uomini che ancora, nonostante tutto, danno vita a movimenti, comitati, associazioni, fanno politica nel senso pieno e grande che dicevo all’inizio.

Io sono una cittadina attiva, definizione elementare, ma non sufficiente. Sono femminista e, scusate, anche comunista. Del comunismo rivendico la correttezza delle domande poste alla politica e all’economia, domande che non sono diventate prive di senso quando le risposte si sono rivelate inadeguate e talvolta dannose.

Per molti anni, quasi 20, ho fatto politica soltanto con le donne. Da un anno ho deciso di misurarmi di nuovo con la politica istituzionale, in una dimensione mista. Prima della costituzione della Sinistra l’Arcobaleno, a Firenze e, mi risulta, in altre città erano nate associazioni con l’obiettivo di ricostruire una politica di sinistra, nel momento in cui il quadro politico nazionale si sposta verso un centro, identificabile con la gestione dell’esistente, abbandonando l’idea che “un altro mondo è possibile”.

A Firenze questa cosa si chiama Associazione X una sinistra unita e plurale. A Firenze, e non solo, nella Sinistra l’Arcobaleno è presente questa cittadinanza attiva, di donne e uomini che, appartengano o meno ai partiti alleati in questa campagna elettorale, guardano oltre, al 15 aprile, al 15 maggio, ai mesi e agli anni in cui si giocheranno partite troppo importanti per la nostra vita per lasciare che a decidere sia un Parlamento eletto dagli altri.
Nessuna delega, nessuna illusione, solo la volontà di esserci anche a livello istituzionale.

Credo che se non avessi, prima della fine traumatica della legislatura, scelto questo percorso, avrei avuto serie tentazioni astensionistiche. Ma ci sono, sono qui, in uno spazio che rischia di restringersi e che invece deve rimanere, espandersi anzi.
So che dopo il 15 aprile incontrerò in questo spazio molte e molti che oggi si astengono. Non ci sarà polemica, da parte mia e spero anche da parte loro. Ma la possibilità che avremo di costruire qualcosa, dipende anche dalle scelte che faremo, che faranno il 13-14 aprile.
Io, per me, vado a votare.