La violenza contro le donne oltre ad essere problema culturale e sociale, è anche problema politico, perché riguarda “il come” si garantisce la libertà tra uomini e donne. Dunque, la riflessione sulla questione, e le relative azioni da mettere in atto, dovrebbero diventare parte integrante del dibattito politico: la democrazia sostanziale non si può basare semplicemente sulle leggi a favore della doppia rappresentanza, che, tra l’altro, nella concretezza, possono sempre essere gestite ad usum delphini.

Il come” riguarda anche il mondo dell’informazione, cioè il modo in cui viene rappresentato – più o meno implicitamente- il femminile; e il modo in cui vengono date certe notizie.

E’ di questi giorni – ne parlano tutti i Media – la notizia dello stupro di una diciottenne tenuta in ostaggio da un noto imprenditore, ora agli arresti; da quanto si legge, la ragazza è stata sequestrata / drogata / ammanettata / seviziata/ stuprata, per ventitré ore. Il fatto, assolutamente esecrabile, è stato così commentato da una delle più importanti testate giornalistiche italiane : “Un vulcano di idee, che non si è fermato un attimo e che, per il momento, è stato spento”. Attenzione: il focus è sull’autore di questi crimini, che il quotidiano esalta come “vulcano di idee” quasi rammaricandosi per la sua inattività, temporanea. Sic!

Che dire ? Si assiste ancora al perpetuarsi di quella mentalità ancestrale che ha confinato le donne nell’ambito del corpo, della sessualità: donne- oggetto. Cose. Di scarso valore. Scarto. Da mettere sotto silenzio, comunque.

Questa testata, tra l’altro autorevole nel suo ambito (e questo sconcerta ancora di più) non è l’unica a essere incorsa in tale infelice modo di comunicare : circa due anni fa un importante (anche questo!) periodico è stato oggetto di pesanti critiche proprio dalla Commissione Pari Opportunità della Federazione Nazionale della Stampa Italiana, a causa della pubblicazione di un test caratterizzato da volgari stereotipi sessisti (ma quel periodico è stato sanzionato dall’ Ordine dei Giornalisti).

Purtroppo non si tratta di casi isolati. Ne leggiamo tanti.

E’ evidente che persiste, tragicamente, un vistoso problema di in-educazione delle menti, che si accompagna all’in-esistenza di una legislazione incisiva, e si manifesta anche in taluni processi che riguardano le violenze di cui sono vittime le donne. Del resto, i vari Codici nazionali ed internazionali, compresa la Carta per i Diritti dell’Uomo (nomen omen…), non scardinano la mentalità patriarcale (che, secondo i rapporti ONU innerva i rapporti di disuguaglianza tra uomini e donne, e quindi implicitamente giustifica il bisogno ancestrale degli uomini – di molti di loro – di esercitare dominio sulle donne); oltretutto, i Codici vigenti mancano di termini relativi a diritti che permettano di comprendere e giudicare in modo adeguato delitti come lo stupro (che già nell’articolo 1 della vecchia formulazione della legge italiana contro i reati sessuali non era considerato crimine contro la persona, bensì contro la morale,sic!). Tale delitto, infatti, nei vari Codici, è definito come crimine sic et simpliciter, e non come stupro, “cosa che lascia il cittadino inavvertito del delitto che esso commette stuprando”, si legge nel “Progetto di Codice di cittadinanza di genere” redatto – ormai diversi anni – da Luce Irigaray. Insomma, non se ne avverte l’inaudita gravità. E di ciò è testimonianza lampante, appunto, anche certa rappresentazione mediatica.

Il “Progetto” era stato sottoscritto dall’europarlamentare Renzo Imbeni, il quale aveva attivato un percorso a favore delle politiche di genere, inviando alla Commissione per le Libertà pubbliche e gli Affari interni dell’Ue una Relazione sulla cittadinanza di genere in cui aveva incluso il nucleo portante del Progetto. Nel documento, l’europarlamentare aveva proposto il riconoscimento ed il rispetto della differenza di genere a fondamento e garanzia di una vita democratica caratterizzata dalla tutela delle libertà individuali. Tale riconoscimento, se finalmente metabolizzato, escluderebbe, almeno de iure, ogni possibile “reductio” di gravità su ogni tipo di violenza antifemminile, quella sessuale in primis.

Il progetto non passò.

Giova qui ricordare ciò che qualche anno fa ha riferito Thomas Hammarberg, Commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa: “Durante le mie visite nei vari paesi europei spesso discuto di questa problematica coi più influenti politici : alcuni di loro ne afferrano l’importanza, ma altri mostrano un’avvilente compiacenza e non solo respingono il discorso, ma fanno anche battute triviali “.

Il problema è molto grave. Tra l’altro, in mancanza di diritti relativi ad una “cultura appropriata alle identità di genere” (Progetto cit.), i delitti relativi alle violenze contro le donne, considerati, appunto semplicemente come “crimine”, rimangono interni all’ambito penale, “il che non favorisce una pace civile perché il diritto non assume più la funzione di costituire e regolare una comunità civile composta da cittadine e cittadini”. (cit.).

I Codici dovrebbero servire a regolare la vita civile in senso preventivo, prima ancora che in senso punitivo, e dovrebbero fare riferimento, innanzitutto, al diritto di ”essere”, all’autodeterminazione. Un’autentica cittadinanza non può non essere legata innanzitutto alla qualità delle relazioni di genere. Negare ciò significa considerare la cittadinanza come “concetto”, dunque come astrazione, e non come contenuto concreto, adeguato alle persone reali.

Purtroppo, come spesso accade per le questioni di genere – troppo “normalizzate ” da una tradizione di cui si adora la cenere e non il fuoco – il nodo politico è talmente sottile da sembrare inesistente. E invece, è di spessore gordiano.